“DigitalMente”, rubrica settimanale che ogni Venerdì prova a fornire spunti e appunti su digitale e dintorni, per riflettere a tutto campo su innovazione e digitale. Oggi abbiamo scelto di parlare di “data economy”.
L’Istituto per la Competitività [I-Com], think tank con sede a Roma e Bruxelles, il cui Presidente è l’economista Stefano da Empoli, ha presentato questa settimana il rapporto “Innovative Europe: The Way Forward. Taking Stock and Thinking Ahead”. Lo studio è strutturato in tre capitoli dei quali uno è dedicato alla trasformazione digitale in Europa, e contiene molte informazioni d’interesse su innovazione, trasformazione digitale e, appunto, sulla “data economy”.
L’innovazione basata sui dati si distingue come un pilastro fondamentale delle fonti di crescita del 21° secolo. La confluenza di diverse tendenze, compresa la crescente migrazione di attività socioeconomiche verso Internet e il declino nel costo di raccolta, archiviazione ed elaborazione dei dati sta portando alla generazione e all’uso di enormi volumi di dati.
Il valore di mercato dei dati – inteso come aggregato valore della domanda di dati digitali senza la misurazione degli impatti diretti, indiretti e indotti dei dati sul l’economia nel suo insieme – dovrebbe aumentare dagli attuali € 71.6 miliardi a circa € 78 miliardi nel 2020, per raggiungere, stando alle previsioni, i 106 miliardi di euro nel 2025. Il Regno Unito, Germania, Francia e, una volta tanto anche l’ Italia, rappresentano il 64.6% del totale.
L’industria manifatturiera e i servizi finanziari sono in testa in termini di dimensione del mercato dei dati, per un valore di € 15 miliardi e € 145 miliardi, rispettivamente, pari al 21.3% e al 20.3%. Sorprendentemente, le TIC sono al quinto posto, mentre in terza posizione troviamo i servizi professionali.
Nel 2018, l’impatto complessivo del mercato dei dati sull’economia è ammontata a circa 377 miliardi di euro, con la contabilizzazione diretta dell’impatto indiretto che è prevalente [47%] rispetto al resto. Nei prossimi 7 anni si prevede che l’impatto totaledovrebbe crescere dell’83%, raggiungendo i 680 miliardi di euro, con il massimo dei benefici indotti ancora una volta dagli impatti indiretti.
Anche se le competenze di data analytics sono molto richieste, l’offerta è estremamente bassa, con i datori di lavoro che affrontano gravi carenze in tal senso. Al fine di utilizzare e sfruttare il progressivo aumento della quantità di dati che viene prodotta, sono necessari professionisti nell’analisi dei dati. C’erano più di 7.2 milioni di lavoratori dati nell’UE nel 2018, con il 52% concentrato in tre Stati membri: Regno Unito, Germania e la Francia.
I “data workers” rappresentano il 3.41% dell’occupazione totale dell’UE. Questo varia in modo significativo per Paese. Si va dal 6a3% in Lussemburgo all’1,8% in Grecia. Secondo le previsioni per il 2025, i paesi in cui il numero di data workers dovrebbero aumentare di più sono la Slovacchia [14.4% annuo], Cipro [11.3%], Malta [10.3%] e Romania [10.1%], con un tasso considerevolmente superiore al Media UE [6.6%].
Come sappiamo, La Commissione europea ha pubblicato l’High-tech Leadership Index, basato su 24 indicatori appartenenti a i seguenti quattro settori: educazione alla leadership digitale, percentuale della forza lavoro con potenziale di e-leadership, variabili strutturali che consentono opportunità di e-leadership da sfruttare, e abilitazione della e-leadership politiche o altri driver. Misura i fattori probabili atti ad influenzare la domanda e l’offerta di competenze di e-leadership in ogni Paese.
Irlanda, Paesi Bassi, Finlandia, Regno Unito, Svezia, Belgio e Danimarca sono i leader, con un rendimento superiore di oltre il 20% alla media dell’UE, mentre Cipro, Croazia, Slovacchia, Bulgaria, Italia [terzultima], Grecia e la Romania sono all’altro capo della classifica, in fondo.
Questo fa sì che per quanto riguarda specificatamente il nostro Paese l’impatto sul PIL della data economy, seppur previsto in crescita, rimarrà anche in futuro ampiamente al di sotto della media UE, e distante anni luce dalle nazioni più avanzate in tal senso.
Non a caso anche il rapporto del Censis pubblicato ieri ci dice che il 25% degli italiani ammette di non possedere le competenze necessarie in ambito digitale. I valori più bassi si registrano tra chi ha tra i 30 e i 44 anni [8%] e tra i più istruiti [11.4%], alla pari con i più giovani [11.5%]: sono questi i soggetti meglio attrezzati per vivere nell’ambiente digitale. Mentre il 57.3% delle persone anziane confessa un totale deficit di competenze.
La formazione delle persone, a partire dall’istruzione primaria, per arrivare alla formazione post experience, è uno dei principali problemi dell’Italia. Se una volta per tutte non risolveremo nel migliore e più rapido modo possibile questa gravissima carenza, intervendo prontamente su tutta la catena del sapere, e del saper essere, ci avviamo ad essere una nazione in cui l’industria manifatturiera progressivamente scompare, e non viene sostituita, condannando il Paese ad un inesorabile declino.
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