DigitalMente

“DigitalMente”, rubrica settimanale che ogni Venerdì prova a fornire spunti e appunti su digitale e dintorni per riflettere a tutto campo su innovazione e digitale. Oggi abbiamo scelto di parlare del ciclo di vita della comunicazione digitale.

Riprendendo concettualmente l’hype cycle sulle tecnologie emergenti di Gartner, Ste Davies, “collega” inglese, ha infatti realizzato il ciclo di vita della comunicazione digitale. L’hype cycle comprende sia la tecnologia emergente e consolidata, che strumenti e piattaforme nelle comunicazioni digitali e il loro posto attuale all’interno dell’ecosistema digitale. Naturalmente si tratta di una generalizzazione che può variare molto a seconda della dimensione delle imprese coinvolte, e dei mercati/settori in cui operano, ma si tratta comunque di una interessante panoramica sulla curva di adozione. Vale dunque assolutamente la pena di entrare nel dettaglio di alcuni di questi.

Partiamo da quello che è un vero e proprio mantra del social media marketing: l’engagement. L’autore si chiede se l’engagement sia davvero importante, ed infatti lo posiziona molto vicino all’ambito della “disillusione”, delle aspettative tradite. A suo avviso, ciò che conta sono gli obiettivi di business non quante persone hanno toccato un pulsante simile o fatto un commento. Il coinvolgimento sempre più è visto come nient’altro che una “vanity metric” quando contano i risultati reali dell’azienda.

L’engagement rate viene calcolato sommando il totale delle interazioni [like+commenti+condivisioni] diviso per il numero di persone e moltiplicato per 100. A mio modo di vedere, si tratta di una modalità di calcolo da riconsiderare, da rivedere e calibrare in maniera diversa, poiché mette sullo stesso piano, attribuendogli il medesimo valore, i like, i commenti e le condivisioni, falsando dunque la realtà.

Si tratta invece di azioni compiute dalle persone che hanno un valore ben diverso tra loro sia in termini di investimento temporale che, soprattutto, psicologico. Mentre infatti mettere mi piace – o altra “reaction” – è un gesto che richiede un tempo minimo e che di fatto non genera alcun impatto, come banalmente dimostra, ad esempio, l’ampissima distanza tra la fanbase di alcune testate d’informazione e il traffico al sito web, ben diversa è la questione per condivisioni e commenti.

La condivisione, sepppur mediamente non richiede molto più tempo di un like, comporta però un investimento psicologico poiché la persona si “appropria” del contenuto, lo fa suo e lo auto-rappresenta agli occhi dei suoi amici, dei suoi contatti. Altrettanto dicasi per i commenti che, al netto delle derive, richiedono una lettura attenta del contenuto e altrettanta dedizione nel formulare il commento in un italiano, almeno, passabile, con un investimento sia temporale che psicologico decisamente superiore.

Per ovviare al problema, e avere una metrica del coinvolgimento effettiva, si rende dunque necessario, almeno, ponderare le tre tipologie di interazione, dando loro un peso specifico distinto. Dopo dieci anni di presenza, e di lavoro, sui social credo davvero sia giunta l’ora di riconsiderare come misurare e valutare il tasso di engagement prima che anche questo diventi una “vanity metric” da presentare nella prossima riunione, nel prossimo report, come dice Davies.

Il “blogging”, dato per morto centinaia di volte quando in realtà è divenuto un format editoriale a tutti gli effetti, con i corporate blog per quanto riguarda content marketing e brand journalism, e le testate, una per tutte il Fatto Quotidiano, o Huffington Post, che ne hanno fatto una presenza permamente, ed un’importante fonte di traffico, all’interno dei loro siti web.

Originariamente, l’insieme dei comportamenti e del lavoro in Rete di queste persone costituiva la “blogosfera”, termine usato per la prima volta più di quindici anni fa dall’inglese Brad L.Graham per denotare il sistema aperto e interconnesso di “blog”, che viene configurato progressivamente dai “blogger”: un sistema che produce conoscenze in quantità superiori a quelle generate finora dall’umanità nei millenni passati.

Questa galassia di produttori e consumatori di informazioni , di organizzazioni sociali rette dalla comunicazione, appare come un medium davvero globale, che, in chiave corporate, può diventare utile per veicolare commerci di massa e fidelizzare consumatori o per trasmettere modelli di comportamento pubblico e ottenere consenso dai cittadini, su vasta scala.

In un’epoca in cui i social network vanno e vengono, il blogging ha resistito alla prova del tempo. Se pensate di iniziare un [corporate] blog oggi, immaginate che potrebbe andare forte tra dieci anni. Difficile dire lo stesso con certezza di qualsiasi social media/network, visti i chiari di luna. Detto questo, la crescita di un blog richiederà molto tempo, quindi è necessario avere pazienza e, soprattutto, qualcosa di prezioso da dire.

Insomma, su questo siamo d’accordo con Davies. I blog funzionano, sono più vivi che mai, e lo saranno ancora per lungo tempo sopravvivendo a ondate, mode, e mutamenti.

Anche le newsletter, come i blog, stanno vivendo una seconda primavera e nascono continuamente nuove iniziative, nuovi prodotti editoriali in tal senso. L’ultima nata, in Italia, è quella del Corriere Innovazione che ne ha lanciata una, con tanto di sponsor, per l’anniversario della nascita da un anno del suo supplemento “Corriere Innovazione”, mentre il “Folha de S. Paulo”, quotidiano brasiliano che ha addirittura deciso di non aggiornare più la propria fanpage su Facebook per dedicarsi, appunto, a ben dieci newsletter tematiche, ed anche il NYTimes ne ha un’ampia gamma, alcune delle quali con milioni di abbonati.

Anche noi di DataMediaHub abbiamo, da circa un anno e mezzo, una newsletter, anche se preferiamo chiamarla digest settimanale, e nel tempo abbiamo dato il nostro significativo contributo, con soddisfazione professionale ed economica, alla nascita di newsletter verticali a pagamento.

Sia il tasso di apertura che la percentuale di clic sulle newsletter sono diminuite nel corso degli anni, ma c’è ancora molto valore nel possedere una lista di e-mail a cominciare dal fatto di conoscere esattamente a chi ci si rivolge, e  di non essere soggetti al “capriccio” dei social, e dei loro algoritmi.

Le newsletter, con i corporate blog, e i siti web, per quanto riguarda la comunicazione corporate, sono tutt’oggi uno dei pochi “owned media”, nell’era dei “rented media“, social inclusi. Condividiamo sunque assolutamente la scelta di Davies di posizionarle nello “Slope of Enlightment”.

Molte piattaforme social, come Facebook e Twitter, hanno iniziato a ostacolare l’uso di bot e strumenti di automazione in particolare a partire il 2016. Le persone desiderano sempre più personalizzazione con cui l’automazione combatte. L’automazione può essere utile per ottimizzare il flusso di lavoro, ma quando si tratta di coinvolgere le persone ci vogliono persone vere.

Questo vale ancor di più se possibile per il [social] customer care e l’ampio utilizzo di Chatbots in tale ambito. Una volta molto lodati per i loro tassi eccezionalmente alti, i chatbots stanno indietreggiando perché sempre più persone e aziende eliminano l’utilizzo dei propri. Il peggiore in tal senso, nella nostra esperienza, è quello di Tiscali Help Desk. Tragi-comico! Siamo davvero sicuri che le persone vogliano davvero parlare con un chatbot tutto il giorno? Ne dubitiamo fortemente, diciamo.

Entrare nel dettaglio di ciascuna voce del digital hype cycle richiederebbe forse un trattato ad hoc.  Per non  dilungarci troppo, e rischiare così di abusare del vostro tempo, abbiamo deciso di modificare il ciclo di vita della comunicazione digitale realizzato da Davies, adattandolo a quella che è la nostra visione, così da esprimerla, come si suol dire, a colpo d’occhio.

Se vi va, fateci sapere che ne pensate, cosa vi trova d’accordo, e cosa invece no, e dunque quali modifiche apportereste [e perchè]. Potrebbe venirne fuori un bel “esercizio” di intelligenza collettiva.

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