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Una selezione ragionata delle notizie su media, giornalismi e comunicazione da non perdere, commentate.

  • Il cretino bussa sempre due volte – Dopo che a Maggio 2017 avevamo analizzato cosa non andasse nella comunicazione di Taffo, l’impresa di pompe funebri che viene acclamata per la “genialità” del suo stile di comunicazione, successivamente abbiamo preso spunto da un loro comunicato stampa, che nel promuovere una propria iniziativa spiegava che «Come tutte le iniziative di Taffo, anche questa certamente invaderà i social di foto e racconti», per spiegare, dati alla mano come d’abitudine, che “l’invasione dei social” prospettata in realtà era un flop. Articolo relativamente al quale sono arrivate considerazioni critiche basate fondamentalmente sul fatto che il successo, o l’insuccesso di Taffo, andasse misurato non in base alle metriche da noi selezionate — che infatti erano relative ad un fatto specifico — bensì su altri criteri a cominciare dal fatturato. Ecco che allora, verso fine 2017, abbiamo messo mano al portafoglio ed acquistato i bilanci di Taffo dimostrando che anche sotto questo profilo la comunicazione non funziona, anzi. Apriti cielo. Con il titolare dell’agenzia che gestisce i social a cercare di arrampicarsi sugli specchi all’attacco a testa bassa contro il sottoscritto, arrivando persino ad affermare che la comunicazione andrebbe valutata da qui a tre anni come se la Taffo, che fattura 4 milioni di euro, potesse valutare i risultati della comunicazione a tre anni come Procter&Gamble, ed aggrappandosi al fatto, falso, che l’azienda comunica con l’attuale mood solo da inizio 2017 e rifiutandosi di fornire KPIs e dati, più volte richiesti, poiché evidentemente o non sono stati fissati o sono altrettanto sfavorevoli. A distanza di poco più di un mese da allora il responsabile della strategia social [se così la si può definire] di Taffo ritorna all’attacco riproponendo in un’intervista esattamente la stessa versione dei fatti, dunque il vuoto pneumatico visto che ancora una volta non vengono forniti dati, e naturalmente riprendendo ad attaccarmi. Non solo, a fronte di una mia richiesta di contraddittorio, i responsabili del sito web dapprima accettano di concedermi una “contro-intervista” ma successivamente, per via privata, mi comunicano che hanno avuto «uno scambio di opinioni con Riccardo Pirrone [questo il nome del responsabile della “strategia social” di Taffo], che ha chiesto di non pubblicare la mia replica», ragione per la quale viene pubblicata una mia intervista su altri temi per porre rimedio alla figura barbina. Insomma, siamo davvero al ridicolo. Proviamo a mettere ordine poichè la case study è di grande interesse per chi si occupa di marketing.  1) L’attuale mood di comunicazione è iniziato nel 2015 a prescindere dal canale sul quale la comunicazione è stata veicolata. Non a caso il titolo dell’articolo che tanta ira ha suscitato mette tra parentesi social media ponendo l’accento sulla strategia marketing [o supposta tale]. Prima non erano le metriche giuste, poi le somme dei fatturati ed ora il periodo di riferimento. Siamo al ridicolo. Unghie che stridono sugli specchi dell’incompetenza proclamata; 2) L’azienda fa una comunicazione assolutamente no sense. Si tratta infatti di un settore particolare nel quale gli “influencer” sono prevalentemente negli ospedali ed è con loro che devo relazionarmi, anche sui social, non far “[sor]ridere” i ragazzi [visto che si dubita fortemente che “il target”, quelli che stanno per morire, rida dei meme di Taffo]; 3) Dunque, non solo è sbagliata la strategia di comunicazione, ed il relativo “mood”, ma anche il pubblico al quale si rivolge; 4) Il fatto che oltre allo stesso nome – i Taffo sono due “separati in casa” – venga fatta la stessa comunicazione da parte di entrambi, la rende ancor più inefficace, se possibile; 5) L’attività di comunicazione secondo l’attuale “mood” è in essere dall’autunno 2015, o prima; 6) Chi la gestisce insulta, sbraita e propone il “grafichino de noantri” invece che fornire KPI e dati; 7)  L’analisi dei bilanci è omogenea al suo interno e sono valutati i parametri della medesima impresa su 4 anni; 8) Altre imprese di pompe funebri, nello stesso arco temporale, invece crescono aumentando il loro fatturato; 9) Le considerazioni sono sempre state fatte relativamente alla comunicazione di Taffo. Sino a quando siamo stati insultati a più riprese non era stato fatto alcun riferimento all’agenzia e/o alle persone che vi lavorano. Speriamo davvero di poter considerare chiusa la questione e di aver fornito spunti di riflessione agli addetti ai lavori come le oltre mille condivisione del nostro articolo sembrerebbero testimoniare. Il cretino bussa sempre due volte, speriamo non ce ne sia una terza, per il suo bene.
  • La ballata del freelance – Cristina Da Rold, giornalista di valore che ho avuto il piacere di avere in aula come discente quando, qualche anno fa, ho fatto formazione al master in Digital Science Journalism della SISSA di Trieste, come la maggior parte dei suoi colleghi della stessa, giovane, età, si barcamena [nel senso buono del termine] come può per sopravvivere alla crescente precarizzazione della professione giornalistica. Al riguardo ha pubblicato in questi giorni “La ballata del freelance” in cui narra le peripezie di quello che i media chiamano “il popolo delle partite IVA”. Ne anticipiamo solo un estratto: «“Freelance” – si dice – non suona mica male, e poi dirlo in inglese è tutta un’altra storia.. Il mondo è grande, connesso e globale e poi “il successo è cosa meritoria”». Proseguendo «Considerato tutto, anche gli acconti dei soldi anche ancora non sa se guadagnerà, Marietta guarda i suoi conti in banca pronti in un baleno a ridursi alla metà». Per concludere «Insomma, Marietta l’ha capita infine la morale: se paghi soldi che non hai mai fatturato e per un anno lavori meno pagando tante tasse uguale, finalmente il diritto a esser chiamato “povero” te lo sei di nuovo guadagnato». Visto che siamo in piena campagna elettorale sarebbe bello se invece di proclami sulla “razza”, sul canone RAI ed altri argomenti futili, o peggio, si affrontasse, con serietà, il disagio di milioni di persone senza un futuro poiché non in grado di pianificarlo a causa di un presente che definire disagiato è un eufemismo, come giustamente ricorda la De Rold.
  • Come funziona il fact-checking del New Yorker – In Italia siamo abituati a un’idea un po’ strana del fact-checking: è qualcosa che si fa quando un articolo è già uscito; lo si fa, in genere, su Twitter, su un blog, più raramente su un altro giornale. Difficilmente un articolo è sottoposto a fact-checking prima di essere pubblicato, all’interno della stessa redazione. Nei giornali americani il fact-checking è spesso parte integrante del processo di editing: il caporedattore, o chi per lui, fa tutto il possibile per controllare che quello che hai scritto sia non soltanto sensato, ma anche vero e verificabile. Anzi, alcune delle testate migliori hanno un dipartimento di fact-checking che si occupa soltanto del processo di verifica, mentre qualcun altro segue l’editing. Una di queste testate è il New Yorker. Nell’intervista a il capo fact-checker Peter Cambey, che dirige una squadra di 20 persone dedicata esclusivamente a questo compito, spiega: «Editing è lavorare sulla storia. Fact-checking è lavorare sul contenuto fattuale del pezzo. Le due cose possono sovrapporsi. […] Il fact-checking è estremamente costoso. Però è una parte centrale del nostro processo editoriale e, sì, ne vale la pena, perché ci aiuta a costruirci una reputazione di affidabilità». Nell’epoca del passaggio dalla brand image alla brand reputation, e dalla brand identity alla brand personality, lavorare prima di tutto sulla reputazione, soprattutto per i newsbrand in crisi di fiducia da tempo, è il miglior investimento da farsi. Per dirla come scrive l’amica Arianna Ciccone: «Stop trying to be everything to everyone, stop trying to be first [and getting the story wrong] and please stop chasing view counts».
  • AdReaction: The Art of Integration – Il nuovo studio “AdReaction: The Art of Integration”, di Kantar Millward Brown esamina le campagne pubblicitarie multicanale a livello globale per indicare quali caratteristiche devono avere per ottimizzare le performance di brand. Lo studio ha rilevato che campagne pubblicitarie ben integrate e adattate ai diversi canali presentano notevoli benefici [aumentano l’efficacia della campagna del 57%]. Ma purtroppo meno di una su due fra le campagne testate sembra esserlo [46%]. Inoltre, lo studio ha evidenziato che gli esperti di marketing e i consumatori hanno opinioni diverse sul fatto che le campagne si integrino con successo. La maggior parte dei responsabili marketing intervistati [89% a livello Globale ed anche in Italia] ritiene che le proprie strategie siano integrate, ma poco più della metà dei consumatori è d’accordo [il 58% nel mondo – In Italia il 53%]. In tutto il mondo, i consumatori dichiarano di essere bombardati da un numero crescente di annunci pubblicitari in sempre più canali. L’81% degli intervistati [dato Global] riferisce che questo fenomeno è in aumento rispetto a tre anni fa e la cifra è superiore al 70% in tutti i paesi presi in esame, ad eccezione del Giappone. La maggior parte dei consumatori nel mondo [69%] concorda anche sul fatto che le pubblicità sono più intrusive ora. Questa cifra è superiore al 50% in tutti i paesi ad eccezione di Cina, Giappone, Hong Kong, Corea e Indonesia. «Grazie a “Ad Reaction – The Art of Integration”, possiamo evidenziare i principi guida per aiutare il Marketing e le Agenzie a integrare meglio le iniziative multicanale e in modo da evitare le insidie della frammentazione e a identificare gli elementi creativi chiave per campagne di successo», ha affermato Stéphanie Leix, Creative Domain Lead – Insights, Kantar. Che una buona integrazione dei canali, dei mezzi, sia fondamentale per il successo di una campagna di comunicazione non è certo una novità, anzi, ma la ricerca ha il merito di suggerire anche le buone pratiche da implementare. Aspetto del quale, secondo quanto emerge dallo studio, ma non solo, pare vi sia un gran bisogno.
  • Le testate all digital italiane al palo – Audiweb ha diffuso i dati relativi alla total digital Audience nel mese di Novembre 2017. Nel giorno medio l’audience online ha registrato 23,7 milioni di utenti unici, con 11,6 milioni di italiani che hanno navigato almeno una volta da desktop e 19,6 milioni anche o solo da mobile [smartphone e/o tablet]. L’intera categoria di Audiweb “Current events and global news”, che comprende tutti i siti di informazione, è calata nel mese dell’1%.  In questo quadro generale di gran lunga peggiori le performance dei siti delle testate all digital.  Citynews perde il 12.3% rispetto ad Ottobre 2017 [ma cresce del 3.9% rispetto al Novembre 2016], Ansa cala del 6% rispetto al mese precedente, Fanpage registra una flessione del 6.9% rispetto al mese precedente e addirittura cala del 13.8% rispetto al mese corrispondente dell’anno precedente. Ed ancora, Nanopress cala del 8.4% rispetto ad Ottobre 2017 e di ben il 39% rispetto all’anno scorso, Blogo, che nel frattempo, come noto, ha chiuso i battenti, perde il 14.2% rispetto ad Ottobre 2017 e il 46% rispetto al Novembre 2017. Anche Il Post di Luca Sofri perde il 9.4% anche se cresce del 22.9% rispetto al 2016, così come Dagospia in flessione del 9.4% rispetto ad Ottobre ma in crescita del 8.5% rispetto a Novembre dell’anno scorso. Fanno eccezione HuffPost Italia che cresce del 7.6% rispetto ad Ottobre ma cala del 6.1% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, Lettera43, di proprietà dello stesso editore che ha recentemente chiuso [in malo modo] Pagina99, che aumenta del 6.3% rispetto ad Ottobre e del 9.2% rispetto all’anno scorso. Best performer, in termini di crescita, il sito di AGI. Infatti, l’agenzia di informazione diretta da Riccardo Luna e dal condirettore Marco Pratellesi [entrambi al nostro master], che in un anno ha quasi triplicato i suoi visitatori, portandoli da 15mila a 42mila e cresce sensibilmente anche rispetto al mese precedente. Anche se di fatto Novembre ha meno giorni lavorativi di Ottobre e nel Novembre dell’anno scorso si era verificati fatti “sensazionali”, a cominciare dalla la strage di Las Vegas, I cali registrati dallla maggior parte dei pure player suonano come un campanello di allarme sia per le incerte sorti di molte testate all digital di oltreoceano che per la recente stretta di Facebook dal quale testate come Fanpage hanno una forte dipendenza in termini di traffico e pagine viste.
  • Broadcast your brand – I multi-channel network [Mcn] sono organizzazioni intermediarie tra l’attività di YouTube [o altre video streaming platform], gli inserzionisti e i creatori di contenuti. Gli Mcn hanno aiutato YouTube a gestire, monetizzare e professionalizzare i creator in un momento in cui la loro crescita esplosiva non poteva essere gestita dalla sola piattaforma, e tuttavia era di vitale importanza per qualificare l’inventory video agli occhi degli inserzionisti. Il modello di guadagno degli Mcn si basa sulla ripartizione dei ricavi pubblicitari di YouTube, andando a incassare una fetta dei proventi che spettano ai creatori: fatto 100 il guadagno pubblicitario, il 45% va a YouTube come quota fissa e, in media, il 38% al talent e solo il 17% al multi-channel network. Sono ulteriore fonte di guadagno anche le collaborazioni dirette con i brand, perlopiù indipendenti da YouTube, che rientrano nell’area della brand integration: si tratta di recensioni sponsorizzate, product placement ma anche branded content e merchandising. Va detto che l’esistenza stessa degli Mcn reintroduce quella logica di mediazione [e quella barriera all’ingresso] che l’iniziale retorica del Broadcast Yourself intendeva eliminare. I multi-channel network sono in un certo senso dei gatekeeper  che, con il loro lavoro di aggregazione e affiliazione, operano una inevitabile selezione dei contenuti e dei talenti: chi fa parte dei network viene formato e sostenuto, spinto in cima alle visualizzazioni grazie al sistema di raccomandazioni automatiche e all’algoritmo di Google. Trainato dalla crescita esponenziale del consumo di digital videodegli ultimi anni e dallo spostamento degli investimenti pubblicitari sul video online, il successo degli Mcn non ha lasciato indifferenti i broadcaster, e non stupisce che i grandi gruppi media tradizionali abbiano voluto mettere un piede in questo mercato. Dopo anni di grande entusiasmo, però, qualcosa è cambiato. Lo scenario in cui operano gli Mcn è mutato, ed è in continua trasformazione. Di conseguenza, per sopravvivere sono cambiati gli Mcn stessi, tanto che alcuni non si riconoscono nemmeno più nell’acronimo. La parola d’ordine è “diversificare”. Gli Mcn stanno trovando nuovi modelli di monetizzazione nella produzione di contenuti originali e nella brand integration. Ma soprattutto, dato che YouTube ha ormai perso il monopolio del digital video, è necessario diversificare le piattaforme su cui distribuire i propri contenuti: Facebook in primis, ma anche Snapchat, Twitter, Instagram e una lista potenzialmente infinita di streaming platform e OTT stanno diventando importantissimi pezzi del puzzle per la distribuzione del contenuto video, sempre più ampia e, per dirla alla Jenkins, spalmabile. Una distribuzione diffusa che porti il contenuto là dove sono gli utenti, e ovunque essi siano. Da multi-channel network, insomma, a multi-platform network. Lo stesso destino che [in]segue la TV tradizionale e i broadcaster se non vorranno vedersi fortemente ridimensionati come è avvenuto ai giornali.
  • Minori e media – A sette anni arriva il primo smartphone, ma nella fascia 6-8 anni già il 70% dei bambini ha accesso alla rete con il tablet dei genitori, spesso con scarso controllo. Oltre il 16% degli adolescenti [soprattutto maschi] ignora i rischi del sexting on line, ovvero dello scambio di immagini sessualmente esplicite sul Web. E nel 73% delle case i minori guardano la Tv senza il filtro del parental control. Sono i dati contenuti nel Libro Bianco “Media e Minori 2.0” realizzato da Agcom, l’Autorità Garante per le comunicazioni, e presentato nei giorni scorsi alla Camera. Il rapporto ha indagato le competenze digitali di bambini [6-12 anni] e adolescenti [13-17 anni], misurando il loro “attivismo” online e cercando di cogliere il pericolo percepito dai più giovani nella loro esperienza di navigazione. Secondo i dati, se per i bambini l’età del primo smartphone si è abbassata a 7 anni, per gli adolescenti – fascia d’età 9-12 anni – è scesa a 10 anni. In generale, i genitori si mostrano attenti conoscitori delle abitudini di consumo online dei bambini, mentre solo l’1% dichiara di essere all’oscuro delle attività svolte dai propri figli.  Secondo Agcom i genitori appaiono attenti e “sensibili” ai simboli per il parental control in Tv. L’82,4%, infatti, dichiara di aver notato programmi contrassegnati dalla segnaletica e, alla domanda sul significato attribuito ai simboli di colore giallo, l’83, 6% ha fornito la risposta corretta, ossia «che la visione del programma da parte dei minori debba essere accompagnata dagli adulti». Anche se conosciuto, però, il parental control non è utilizzato dal 73% degli intervistati. Sul fronte degli adolescenti fra i 13 e 17 anni – che mostrano un utilizzo molto intenso dello smartphone tanto da essere considerati “always on”, cioè sempre collegati, il rapporto mette in luce dati preoccupanti riguardo al fenomeno del sexting, evidenziando una diversa percezione del rischio tra ragazzi e ragazze. Il 16,2% dei maschi ed il 9,5% delle femmine lo giudicano infatti come uno scherzo tra amici, ed il 10,7 % dei maschi ed il 5,9% delle femmine come un modo per sedurre qualcuno e per lanciare segnali di interesse. Secondo il presidente dell’Agcom, Angelo Cardani è necessario «trovare un bilanciamento tra i rischi di un uso improprio del web e le sue opportunità di apprendimento e di allargamento delle conoscenze nelle dieta mediatica dei giovani». Non fidatevi della sintesi e leggete il rapporto integrale che contiene informazioni di grande interesse sia per quanto riguarda l’etica dei media nei confronti dei minori che in riferimento ai medium grazie ai quali è più facile, ed è meglio, comunicare con loro, anche, in chiave di comunicazione d’impresa.

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