L’articolo di ieri nel quale veniva segnalato un videogame in cui si impersonificava un caporedattore ha riscontrato [grazie!] un buon interesse e gradimento. Diversi i tweet che l’hanno segnalato, i mi piace su Facebook e su altre reti sociali.
Non è così per Andrea Iannuzzi, direttore dell’AGL, l’Agenzia Giornali Locali del gruppo editoriale L’Espresso, che sia su Twitter che su Facebook esprime il suo disaccordo rispetto all’utilità del gioco. Dissenso al quale, mi pare di capire, si uniscono altre persone delle quali, come anche per Iannuzzi stesso, ho stima e considerazione.
Ovviamente non è sempre necessario essere d’accordo nonostante le affinità ma credo valga la pena di approfondire.
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L’obiezione di fondo che viene mossa è che poichè il videogioco obbliga ad essere filogovernativo questo non sia un buon strumento per formare. Le parole esatte, se vi interessasse il dettaglio – con anche qualche digressione se non acida sicuramente, mi spiace doverlo constatare, di dubbio gusto – potete leggerle qui e qui.
Credo ci sia, almeno, un equivoco di fondo.
In primis è opportuno distinguere tra gioco e simulazione. Mentre infatti una simulazione, se restiamo in ambito formativo la versione “classica” è rappresentata dai business games, deve essere la riproduzione il più fedele possibile, un gioco non deve esserlo altrettanto. Il gioco, come provavo a spiegare in 140 caratteri, si concede delle licenze che fanno parte della narrativa, di quello che utilizzando l’inglese viene definito comunemente storytelling.
E’ in questo senso che va intesa la contestualizzazione di “The Republia Times”.
A questo va aggiunto che se certamente si apprende attraverso l’autoformazione solitamente, a parità di condizione, la formazione è invece di maggior efficacia. Anche in questo caso il gioco, utilizzato in aula sotto la guida di un formatore esperto, aumenta il suo valore. Infatti oltre a costringere ad una serie di prese di decisione, come sottolineavo ieri, potrebbe essere utilizzato proprio per dialogare con i discenti sui condizionamenti, che esistono al di là della facciata e delle ipocrisie sul tema, nella quotidianità del lavoro giornalistico dando un ulteriore tocco di sano realismo ad argomenti che spesso restano troppo aleatori, teorici ed inutili.
Credo insomma che sia stata fatta un’interpretazione troppo letterale del gioco e che vi sia stata, a mio modo di vedere ovviamente, una certa miopia, o forse più banalmente ignoranza [non conoscenza], sul come e perchè utilizzare giochi e videogiochi in ambito formativo. Da qui le critiche.
Il dibattito è pubblico ed aperto dite la vostra se vi va, qui nell’apposito spazio dei commenti, o altrove se preferite, avendo, gentilmente, l’accortezza di segnalarmelo.
Bonus track, grazie alla segnalazione su Facebook di Cristina Cucciniello, ben 14 giochi sui diversi skill, le diverse competenze giornalistiche.
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Il gioco di cui si parla (Republia Times) va inquadrato nella produzione tipica del suo sviluppatore (una persona singola, non un team), ovvero Lucas Pope.
Non si tratta di un videogame creato con scopi didattici in senso stretto, più con scopi che definirei “provocatori”: mettere i giocatori nei panni di un caporedattore di un giornale filo-governativo e dargli un obiettivo specificatamente di parte che esula totalmente dai canoni del newsmaking in senso democratico può (deve, direi) sollecitare una riflessione.
Per questo, quando ho visto il titolo sul blog ho un po’ storto il naso.
Lucas Pope non ha mai desiderato creare un simulatore di caporedattore; lo ha fatto come tramite per arrivare a una riflessione provocatoria.
La prova la possiamo trovare nel suo gioco successivo, uscito in questi giorni e apprezzato da molta critica, Papers Please.
Si tratterebbe, se vogliamo seguire la stessa logica utilizzata da chi scrive questo blog, di un simulatore di agente governativo addetto al controllo passaporti presso la frontiera di un paese in cui il governo mima politiche e ideologie di sapore sovietico durante la guerra fredda (o perlomeno di come hollywood ce le ha rappresentate).
Il giocatore si trova a dover controllare velocemente passaporti (seguendo tutta una serie di direttive che cambiano di giorno in giorno) di vari aspiranti immigrati; più ne controlla più viene pagato. E più viene pagato e meglio riuscirà a mantenere la sua famiglia il cui conto-spese giornaliero viene paragonato alle entrate alla fine di ogni giornata.
Ma non solo. Di fronte al giocatore si presentano vari casi interessanti: prostitute in fuga, terroristi pronti a elargirgli ampie mazzette (che pagano mesi di affitto), famiglie divise dal regime… al giocatore spettano tutta una serie di decisioni dal sapore “etico”.
Papers Please non è quindi un simulatore di “controllo passaporti” più di quanto Republia Times non sia un simulatore di “caporedattore”.
Certo, questa componente è presente, ma si tratta di un tramite per raggiungere un obiettivo ben più interessante.
Entrambi i giochi non formano in modo tecnico, in modo tradizionale.
Formano però in un ambito in cui oggi si sente maggior bisogno, ovvero nel pensiero critico.
Grazie Davide, sottoscrivo al 100%
mi ero letto ieri l’articolo, riservandomi di linkarlo alla prima occasione, e oggi che riapro netvibes mi trovo… il delirio. ma veramente una polemica del genere, dai toni anche abbastanza ridicoli? io sono d’accordo sulla proposta di far giocare il gioco in tutte le scuole di giornalismo – e non perché sia una perfetta simulazione del lavoro del caporedattore. semplicemente perché mette di fronte a scelte e rende più chiaro a tutti quello che succede quando i “limiti” entro cui si agisce sono ristretti. tutti i giornalisti ne hanno avuto un assaggio in qualsiasi ambiente abbiano lavorato e negarlo è, imho, ipocrisia.
clà
Claudio, grazie per l’utilissima integrazione.