Un paio di giorni fa, lo staff di Calenda ha fatto un errore, che fanno in molti, dimenticandosi di fare logout sotto un suo tweet, ed invece di creare engagement con gli account finti di sostegno per fare massa, lo ha fatto ancora loggato dall’account ufficiale del leader di Azione.
Era già accaduto, nel 2019, al Senatore leghista, Simone Pillon, che dopo la condanna in primo grado per diffamazione decisa dal tribunale di Perugia: scrisse su Facebook “Forza Simone”, pubblicando anche in questo caso con lo stesso account sotto al suo post, per poi naturalmente cancellarlo, dimenticandosi che siamo, anche, nell’era degli screenshot.
E anche la ex Ministra alla Funzione Pubblica, Marianna Madia, aveva commesso la stessa ingenuità complimententandosi con se stessa, e il PD, inconsapevole di utilizzare ancora l’account personale.
Insomma, come diceva Agatha Christie: «Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova». Ebbene, i tre indizi ci sono e la prova anche. Molti politici, e il loro staff di comunicazione, creano artificialmente engagement.
Una pratica che in passato è stata anche oggetto di un’inchiesta di Report dalla quale emergeva con chiarezza quanto numerosi fossero i profili “falsi” di presunti seguaci di Salvini a testimonianza di quanto sia diffusa la consuetudine dei “fake follower”. Del resto proprio Pillon, dopo “l’incidente” aveva ammesso che il suo staff fosse pagato per incensarlo con falsi profili.
Si tratta di modalità che non hanno bisogno di ulteriori commenti. Si tratta di una visione dilettantesca e arcaica, sia in termini di e-Democracy che di strutturazione della propria comunicazione politica, come avevamo commentato, proprio in riferimento a Calenda.
Calenda inizialmente, in risposta a Selvaggia Luccarelli, aveva attribuito l’errore ad un componente del proprio staff , cercando di minimizzarlo a più riprese.
Poi ha negato l’evidenza, negando che lui e il suo staff utilizzino altri account per creare engagement artificialmente. Infine, non contento, ha attaccato Alberto Infelise, caporedattore de la Stampa, e persona che ho trovato particolarmente collaborativa durante la mia esperienza come “temporary” social media editor del quotidiano in questione, che stando al capo politico di Azione sarebbe uno dei tanti giornalisti che sono «solo altri tifosi che si aggiungono sugli spalti durante il finale di una partita di serie C. Povera Stampa. Con la S maiuscola e minuscola». Sostenuto poi da Crosetto, che si è vantato di aver bloccato Infelise e ha lasciato intendere che ai tempi in cui “l”avvocato” era proprietario del quotidiano di Torino Infelise sarebbe stato messo alla porta.
Attacco che è valso al giornalista de la Stampa lo squadrismo dei sostenitori di Calenda, come si può vedere scorrendo la sua timeline su Twitter. Al quale Calenda non è nuovo viste le battute di dubbio gusto sui giornalisti del Fatto Quotidiano dopo lo scontro con Gomez qualche giorno prima. Il tutto nel silenzio più assoluto dei principali quotidiani online che invece normalmente fanno da cassa di risonanza amplificando quello che i politici scrivono su Twitter e sui social in generale.
Abbiamo investito una parte del nostro tempo per ricostruire questa vicenda sia perchè è l’ennesima evidenza dell’arretratezza della comunicazione politica sui social, come spiega bene in sintesi Cristina Correani, che degli stessi giornali che vorrebbero responsabilità editoriali per le piattaforme su cui diffondono questi contenuti. Non a caso, secondo l’Edelman Trust Barometer 2021, in Italia il 75% degli intervistati ritiene che i media non stiano facendo affatto bene per quanto riguarda obiettività e diffusione di notizie che non sia parziali, e di parte.
L’emoji cloud, relativa alle conversazioni online su Calenda del 23 gennaio scorso, quando è avvenuto quanto sin qui riportato, spiega meglio di ogni altro dato il sentiment, ampiamente negativo, nei confronti della figuraccia del leader di Azione.
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