Il Reuters Institute for the Study of Journalism ha reso disponibili i risultati dell’edizione 2020 del “Digital News Report”, il rapporto annuale più atteso dagli adetti ai lavori, e più completo, sullo stato dell’informazione.
Si ricorda che i risultati sono relativi alla popolazione online che fruisce delle notizie almeno una volta al mese. Vengono quindi esclusi coloro che non si informano in assoluto e coloro che non utilizzano la Rete, che per quanto riguarda il nostro Paese sono una quota assolutamente non trascurabile, come sappiamo.
La ricerca è stata condotta da YouGov utilizzando un questionario online alla fine di Gennaio / inizio Febbraio 2020, e dunque si riferiscono alla situazione precendente alla pandemia da covid. Il rapporto di quest’anno è basato su dati provenienti da sei continenti e 40 mercati, Italia inclusa. La metodologia completa è disponibile qui.
Complessivamente meno di quattro persone su dieci [38%] hanno affermato di fidarsi della maggior parte delle notizie per la maggior parte del tempo. Un calo di quattro punti percentuali rispetto al 2019. In Italia coloro che si fidano delle news sono poco più di un quarto [29%]. Un calo di ben undici punti percentuali rispetto al 2019 che ci colloca in 30esima posizione sui 40 Paesi presi in considerazione, e nelle ultime posizioni in Europa.
Meno della metà delle persone [46%] afferma di fidarsi delle notizie delle quali loro stessi fruiscono. Solo 6 Paesi su 40 hanno livelli di fiducia superiori al 50%.
La maggioranza delle persone [60%] afferma di preferire notizie che non hanno un particolare punto di vista, il più possibile neutrali, fattuali, e solo una minoranza [28%] preferisce notizie che condividono o rafforzano le loro opinioni. Non a caso, come vedremo di seguito in specifico riferimento all’Italia, le testate e le fonti d’informazione più decisamente schierate sono quelle che godono di minor fiducia.
È interessante il modo in cui l’atteggiamento delle persone verso notizie “oggettive”, o “parziali”, è correlato alla fonte di notizie che usano più spesso. Una preferenza per notizie più parziali è più forte in Spagna, Francia e Italia. Paesi che i ricercatori del Reuters Institute hanno definito “pluralisti polarizzato”. Per quanto riguarda specificatamente il nostro Paese siamo comunque allineati alla media internazionale con il 60% delle persone che afferma di preferire notizie che non sostengono un particolare punto di vista, “neutrali”.
Se il livello di fiducia nell’informazione è ai minimi storici da quando viene realizzato il report annuale del Reuters Institute e la domanda di informazione non di parte è forte in tutto il mondo, Italia compresa, ponendo ancora una volta il tema della centralità di fiducia e oggettività al centro quella che dovrebbe essere la principale [pre]occupazione dell’informazione, il modo attraverso il quale le persone hanno acccesso alle notizie è ulteriore elemento di riflessione.
Infatti, complessivamente poco più di un quarto delle persone [28%] accede direttamente ai siti web e/o alle app proprietarie delle testate, mentre di riflesso 72% vi accede in altro modo. Nel 26% dei casi attraverso i social media e per un altro 25% grazie alla search.
La situazione diventa ancora peggiore, se possibile, per quanto riguarda la “generazione Z”, i nati tra il 1995 e il 2010. In questo caso l’accesso diretto ai siti web e/o alle app proprietarie delle testate scende al 16%. Per contro il principale getaway diventano i social [38%], seguiti dalla search al 25%.
Insomma, la connessione diretta con i newsbrand è complessivamente molto debole, così come di riflesso lo è dunque la fidelizzazione. Aspetto quest’ultimo che si può facilmente riscontrare vedendo, ad esempio, le differenze tra gli utenti unici settimanali e quelli nel giorno medio, con il Corriere che pare avere un’utenza decisamente meno fedele rispetto a Repubblica, per stare ai due siti web con il maggior numero di utenti, secondo i dati Audiweb.
Una cosa è certa, l’informazione è unbranded e, sempre più, social, come del resto emergeva già dalle edizioni precedenti del “Digital News Report”. Aspetto che è stato ampiamente trascurato dai publisher nonostante, appunto, i campanelli di allarme in tal senso fossero forti e chiari.
Se, con l’attuale offerta informativa, i gruppi più giovani non possono essere persuasi a raggiungere siti Web e app specifici, gli editori dovrebbero concentrarsi maggiormente su come costruire il pubblico attraverso piattaforme di terze parti come Facebook, Twitter, YouTube, e gli altri social. Ma, come emerge dai nostri report sul tema, i publisher sinora non hanno costruito sulle piattaforme social un buon ambiente per costruire la lealtà e l’attribuzione che saranno necessarie per le relazioni a lungo termine. È chiaro che così non si va da nessuna parte.
Per completare il quadro, il report, come ogni anno, fornisce anche i dati relativi a quanti pagano per le news online, e la possibile propensione a pagare per queste.
Un primo elemento emergente dal rapporto è che il primo piglia [quasi] tutto, con le grande testate giornalistiche che si accaparrano la maggior parte degli abbonamenti alle loro edizioni digitali/online. Infatti, ad esempio, Times e Telegraph pesano il 59% di coloro che pagano per le notizie, mentre il Guardian da solo attira il 42% del totale delle donazioni nei confronti delle organizzazioni giornalistiche. Lo stesso dicasi per gli USA dove NYTimes e Washington Post concentrano su di loro ben il 70% di chi paga.
Chi paga però resta comunque una minoranza, e coloro che affermano che non intendono mai pagare per l’informazione online è invece una netta maggioranza.
Tra coloro che attualmente pagano per le news online si va dal 42% della Norvegia al 7% nel Regno Unito, passando per il 20% negli USA e in Polonia. La media di 9 Paesi, che include Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Spagna, Italia, Germania, Danimarca, Giappone e Finlandia, si attesta al 13%.
È troppo presto per prevedere il pieno impatto della crisi COVID-19 sul settore delle notizie ma, poiché è probabile che molte persone abbiano un reddito disponibile inferiore e la maggior parte dei non pagatori è ancora ampiamente soddisfatta delle fonti gratuite, le aspettative del settore devono essere realistiche senza illudersi che la vendita di contenuti giornalistici online/digitali, tranne che in rarissimi casi, possa essere una fonte di ricavi significativa per i prossimi cinque anni.
Per quanto riguarda specificatamente il nostro Paese la scheda realizzata, come ogni anno, da Alessio Cornia per l’Italia ci dice che la fonte d’informazione che gode di maggior fiducia è ANSA, mentre quella nella quale minor fiducia viene riposta è Libero. Ci dice anche che coloro che pagano per l’informazione online sono il 10% di coloro che usano la Rete. Un punto percentuale in più rispetto al 2019.
In conclusione, anche se come d’abitudine vi invitiamo caldamente alla lettura del rapporto integrale, i newsbrand hanno un serio problema di fiducia, di relazione e fidelizzazione del lettore, e naturalmente la disponibilità a pagare le notizie resta, e resterà, bassa, in particolare nel nostro Paese, come emerge chiaramente dalla nostra sintesi.
Ora non resta che decidere di lavorare, una volta per tutte, seriamente alla risoluzione di questi problemi, e aprire nuove prospettive a medio-lungo termine, oppure continuare a far finta di niente, come è sostanzialmente avvenuto in questi anni, e brindare a champagne sul titanic che affonda. A voi la scelta.
Infine, cogliamo l’occasione per ringraziare Il Reuters Institute for the Study of Journalism per la puntualità del lavoro svolto, e Eduardo Suárez, per averci anticipato la settimana scorsa, sotto embargo, il report, consentendoci di avere il tempo per approfondirlo e “digerirlo”.
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