[L’Ultimo] Post-it

Questo è il 250esimo numero di “Post-it”, selezione ragionata delle notizie su media, giornalismi e comunicazione da non perdere, commentate, ed è anche l’ultimo, sia perché, come si suol dire, il troppo stroppia, e crediamo sia ora di rinnovare, che perché la Domenica il nostro “Digital Media Sunday Brunch” ha un format simile, anche se non uguale. Stiamo ancora valutando con cosa sostituirlo, e naturalmente se avete idee, proposte, al riguardo, come sempre, saremo ben felici di ascoltarle.

Ciò detto, godetevi, criticate, condividete, o maledite questa ultima edizione con le sette “brevi” di oggi [e se vi mancherà questo appuntamento settimanale iscrivetevi alla nostra newsletter].

  • Continuano a crescere gli investimenti in influencer marketing, ma anche l’attenzione alle frodi – Il 65% dei brand attivi a livello internazionale vuole incrementare la spesa in influencer marketing nei prossimi dodici mesi. L’obiettivo primario è aumentare la brand awareness [86%], ma gli influencer risultano strategici anche per raggiungere nuove audience [74%] e per migliorare l’advocacy [69%]. È quanto emerge da uno studio condotto dalla World Federation of Advertisers e rilasciato qualche giorno fa. In particolare, spiega la ricerca, in cima alla lista dei desideri degli spender figura la qualità dei follower, citata come “assolutamente essenziale” o “molto importante” dal 96% dei rispondenti. Credibilità e reputazione dell’influencer si fermano al 93%. Instagram è la piattaforma più popolare ed è usata dai 100% dei rispondenti, con Facebook secondo all’85%, YouTube al 67%, Snapchat al 44%, Twitter al 33%. WeChat e Pinterest si fermano al 19%. I KPI più rilevanti per la valutazione delle attività degli influencer sono reach e views [96%], engagement [80%], traffico generato [44%] e altri earned media [44%]. Le preoccupazioni sui rischi connessi alla gestione degli influencer si sono concentrate su quattro aree: la fiducia dei consumatori sono state citate come “molto preoccupanti” e “preoccupanti” dal 64% degli intervistati, i rischi legali e finanziari dal 60%, i rischi di reputazione dal 64% e i rischi per la sicurezza del marchio dal 59%. Gran parte delle attività di identificazione e gestione dell’influencer è stato esternalizzato. Il 64% utilizza partner esterni per trovare influencer rilevanti e il 63% li usa per gestire la partnership. Insomma, come si suol dire, accà nisciun è fess, e dopo aver preso atto dei numerosi trucchi e stratagemmi di influencer e celebrities, le aziende cercano di correre ai ripari. È un segnale positivo per la maturità di quest’area emergente di marketing.
  • Lo share giornaliero della RAI stabilmente sotto il 30% – Mentre non si spegne l’eco delle polemiche per la presidenza dell’emittente di Stato, arrivano altre notizie non esattamente rassicuranti per la RAI. Infatti, secondo quanto riportato, lo share medio giornaliero riferito alle reti generaliste della RAI. Si è passati dal 33.6% di pubblico nel 2012 al 29.8% nel 2016, un anno importante perché proprio nel 2016 la TV pubblica è scesa per la prima volta sotto la soglia del 30% di share medio giornaliero. Nel 2015 era al 30.4% e nel 2017 il trend calante si è confermato: 29.07%. Il motivo? Certamente la concorrenza di Internet svolge un ruolo importante, ma sono da considerare anche i prodotti che la RAI manda in onda. I dati, che si riferiscono al 2017, mostrano che la maggior parte del tempo viene dedicato all’informazione, il 32.4% per la precisione. All’intrattenimento va il 26.4% mentre solo il 12.9% del tempo è riservato ai programmi del servizio pubblico. Si tratta di programmi che sono regolati dal contratto di servizio tra la RAI e lo Stato italiano grazie al quale la Rai ha il diritto di ricevere il canone di abbonamento. Ai programmi culturali, poi, viene dato solo il 9.8% dello spazio. Anche se sono i TG del biscione a perdere maggior audience, anche i TG della RAI soffrono. Il 2017 è stato «l’anno della definitiva consacrazione della “televisione liquida”, con una stima di circa 3 milioni di cittadini italiani che guardano abitualmente la TV in streaming e in numero 3/4 volte superiore che scaricano abitualmente contenuti televisivi sui propri device». Insomma, è chiaro che l’informazione online oltre ad aver colpito duramente i giornali nel loro formato tradizionale, cartaceo, sta mietendo ora tra le sue “vittime” anche la televisione ed i telegiornali. È chiaro che la priorità del digitale per la RAI [ma non solo ovviamente] dovrà essere massima, chiunque la governi.
  • Repubblica si lancia sui podcast – Dopo La Stampa, per restare “in famiglia”, ma anche “Il Post” di Luca Sofri, seppur appoggiandosi ad una piattaforma diversa, dal primo di Agosto anche Repubblica sbarca su Audible.  Una selezione di contenuti del  giornale sarà disponibile su Audible, il servizio [ di recente passato di proprietà di Amazon] che da oltre vent’anni offre audiolibri e più di 200 mila programmi audio in tutto il mondo. Nato nel 1995 dall’idea di Donald Katz, giornalista appassionato di jogging che cercava un modo per portare in tasca, in formato digitale, i suoi libri preferiti da ascoltare in cuffia, oggi Audible è disponibile in 8 paesi e offre 15 mila titoli sempre disponibili sulla app e può vantare 2,5 miliardi di ore ascoltate nel 2017. Ogni utente ascolta mediamente 11,4 ore di contenuti, divisi tra audiolibri e “non book”. Da quando è sbarcato in Italia, nel 2016, Audible annovera 4.500 titoli di contenuti in italiano. In particolare, sarà possibile ascoltare la versione audio dei reportage “Super8”, potendo scegliere tra una lista di 17 titoli: da “Il muro di sabbia: la battaglia per la verità su Giulio Regeni” di Carlo Bonini e Giuliano Foschini a “Un unico destino”, il racconto di Fabrizio Gatti sulla strage nel Mediterraneo del 2013. Ma ci sono anche i reportage di Tonia Mastrobuoni da Essen, la città rinata dopo la crisi dell’acciaio; e quello di Francesca Caferri sulle donne musulmane in Italia. Tra i contenuti targati Repubblica che si potranno ascoltare su Audible ci sono anche due digest alla settimana, dedicati a temi di attualità, con una selezione di articoli tratti da Rep:, il sito [e app – rinnovata di recente] a pagamento dedicato agli approfondimenti. Il primo, intitolato “Il dramma di Sergio Marchionne: così finisce un’era per Fca e per l’industria italiana”, contiene articoli, analisi e commenti sulla malattia e la scomparsa dell’amministratore delegato di Fca, firmati tra gli altri da Ezio Mauro, Michele Serra, Paolo Griseri. I contenuti audio di Repubblica sono in prova gratuita per i primi 30 giorni e poi passano a 9.99 euro mensili, ovvero poco meno di 120 euro annui. Come sempre per le nuove iniziative i più sinceri auguri di successo, ma sinceramente sono diverse le cose che non mi convincono. Segue approfondimento ad hoc prossima settimana.
  • Profilo social falso: ecco cosa si rischia – Non si può rubare la foto presa da un profilo social di un’altra persona realmente esistente e metterla sul proprio, anche se il nome dell’account è diverso. È proprio il furto di immagine ad essere sanzionato penalmente. Il reato di sostituzione di persona scatta anche se l’intento non è illecito ma solo scherzoso. Infatti il vantaggio che il codice penale richiede per configurare l’illecito può essere anche solo quello di avere più visibilità nelle rete. Si può utilizzare una foto di un personaggio immaginario, ad esempio elaborata al computer e frutto di una grafica 3D a condizione però che ciò non serva per commettere reati o per truffare le persone o farle cadere in errore. Sarebbe ad esempio vietato fingersi produttore di una trasmissione televisiva o fotografo alla ricerca di giovani promesse solo per carpire l’attenzione della gente. Anche gli pseudonimi sono tutelati dalla legge. A detta della Cassazione, non ci si può chiamare “er patata” fingendosi per uno che davvero viene riconosciuto socialmente con tale nickname. La Cassazione ha ritenuto lecito il comportamento del datore di lavoro che abbia creato un profilo falso di una giovane e bella ragazza solo per adescare i suoi dipendenti e vedere se questi chattano o lavorano durante le mansioni. Egli però non può sostituirsi all’identità di persone realmente esistenti. Se il dipendente accetta l’amicizia, le informazioni ricavate dal datore di lavoro su di lui potranno essere utilizzate in processo. È infine vietato dire di essere un uomo quando invece si è una donna o viceversa. La legge punisce infatti chi tradisce la fiducia di coloro che navigano in rete. Per i giudici il reato scatta anche se non c’è un finalità economica: il vantaggio descritto dalla norma può essere dato anche semplicemente dalla visibilità, nuovo patrimonio degli utenti della rete. Una guida sulla questione molto interessante, che come “sotto-prodotto” ci dice che le norme esistono e basta applicarle. Vale come promemoria per tutti coloro che quotidianamente blaterano, o peggio, al riguardo.
  • Screditare il giornalismo – Mentre non si placa la polemica tra il neo-presidente della FIEG e Davide Casaleggio su “fake news” e giornali, ieri un amico giornalista, su Facebook, si lasciava andare ad “uno sfogo”, risentito contro le ennesime critiche mosse da Paolo Attivissimo su come buona parte del giornalismo italiano abbia trattato la notizia dell’eclissi, arrivando ad affermare che «Ma basta, avete rotto i c. con questo continuo sputtanare i giornalisti. E’ vero, fanno errori, come tutti, ma se vedete solo quelli forse è perché la vostra percezione è piccina piccina».  Certo, come tutte le generalizzazioni fare di ogni erba un fascio è errato, ma la natura del problema la spiega bene Luca Sofri, sempre ieri, quando scrive che «I casi sono due. O il giornalismo professionale ha un senso e un ruolo – come annunciano battendosi il petto e sventolando il tesserino certi rituali commenti sui quotidiani o le promozioni di certi servizi di abbonamento a pagamento – e allora il suo senso e ruolo è non annullarsi e fare le dovute verifiche su ciò che “nasce da internet”, diciamo, e allora il suo senso e ruolo è decidere se e come dare le notizie: “l’uso che chi pubblica fa di informazioni non sempre verificate”. Oppure non ce l’ha, si limita a pubblicare prima e scoprire poi che era una fesseria e al massimo uscire con un commento che definisce la questione “un giallo” e dà la colpa a internet: e allora eviti però di raccontare ai lettori che vale la pena pagare per il giornalismo di qualità che si differenzia dall’informazione mediocre sui social network. È una balla». Capito?
  • Social e promozioni [de noantri] – Sul finire di Luglio un albergo ad Ischia ha avuto la brillante idea, per così dire, di lanciare una promozione su Twitter che prometteva sconti ai clienti-sostenitori di Matteo Salvini: «Per tutti gli amici sostenitori di #Salvini vi sarà applicato lo sconto #salvininonmollare all’Hotel Solemar Terme Beach & Beauty di Ischia. Basta scrivere amico twitter di Aldo Presutti titolare». Iniziativa che ha generato uno “shitstorm” non trascurabile che, invece di fare la fortuna dell’albergo in questione, ha provocato la cancellazione di prenotazioni già effettuate e centinaia di recensioni negative su TripAdvisor, tanto da costringere la piattaforma di recensioni dei turisti a chiudere i commenti, oltre che la chiusura dell’account Twitter, e una raffica di recensioni negative anche sulla pagina Facebook dell’hotel. Promozione, visti i risultati, relativamente alla quale l’albergatore si è detto preoccupato per «un tweet mal interpretato», con una dinamica che ben sintetizza un tweet sulla questione.  Disavventura, diciamo, che non ha impedito all’hotel di aprire un nuovo account Twitter dove ci si schiera apertamente a più riprese a favore di Salvini con tweet di questo tenore: «Visto purtroppo che ho dovuto lasciare l’altro account, ormai infestato da parassiti, mi ripropongo su questo account, per poter condividere con i amici leghisti, le avventure del nostro mito #Salvini. Purtroppo non trovo i vecchi amici, se mi date una mano Grazie», piuttosto che di quello “fissato” in testa all’account che recita: «Una buona sera a tutti leghisti. Malgrado che sono e vengo massacrato da una infinità di insulti, sono sempre più convinto di aver fatto bene a votare Salvini e aver messo questo tweet. Non faccio parte di quella razza di persone che stanno infangando #Salvini, l’italia è a me». Insomma, pare davvero che, mentre ai giornali si fanno dichiarazioni di distensione e pentimento, poi sulla piattaforma di microblogging si continui a battere sostanzialmente sulla stessa strada, o peggio. Contento lui…
  • “Trollare” i giornali – Ieri, Corriere e Repubblica, ed a seguire molti altri quotidiani, hanno ripreso quanto scoperto dal sito americano Five Thirthy Eight,  con la collaborazione di alcuni docenti universitari, che ha creato un database su quasi tre milioni di tweet provenienti dagli account associati all’agenzia russa Internet Research Agency. Di questi tre milioni cinguettii, pare, che ve ne siano 1.500 pro Lega e M5S. Sulla questione Il Corriere della Sera titola «Tweet populisti dalla Russia sulla politica italiana», mentre Repubblica, nella sezione a pagamento,  “spiega” che «Dalla propaganda di Putin 1500 tweet per Lega e 5S». Gli fa eco il Fatto Quotidiano, che titola «La fabbrica di troll per influenzare l’opinione pubblica, tra Russiagate e politica italiana: scoperti 1500 tweet “populisti”», e TGCom24, per stare ad alcuni dei siti d’informazione con la maggior audience, che scrive «In Russia la fabbrica di tweet per sostenere Lega e M5s». Ma qualcosa non torna nella storia dei tweet russi a favore di Lega e M5S, e infatti Wired, che ha analizzato i tweet russi pubblicati da FiveThirtyEight, giunge alla conclusione che gli elementi che fanno pensare ad una loro azione in Italia sono davvero pochi. Ma, anche se vi fosse fondatezza, di cosa stiamo parlando? Di 1.500 [millecinquecento] tweet. Il nulla. Il vuoto pneumatico di cui si danno numeri, probabilmente a casaccio, senza misurane la reach, la portata, e/o l’engagement, il numero di persone effettivamente coinvolte. Fortunatamente, almeno, ci pensa Il Sole24Ore a ridare la giusta dimensione alla questione titolando: «I troll russi colpiscono di striscio l’Italia: solo 1500 i tweet sospetti». Ecco, così va già meglio, decisamente meglio.

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