Lettera Aperta al Sottosegretario all’Informazione e all’Editoria Vito Crimi

Come scrivevamo non più tardi di ieri nella nostra newsletter settimanale, nonostante l’approssimarsi delle vacanze per molti italiani, quella appena trascorsa è stata una settimana calda, anzi bollente, per il mondo dell’informazione nostrana.

L’edizione 2018 del “Rapporto sull’Industria dei Quotidiani in Italia“, la pubblicazione realizzata dall’Osservatorio Quotidiani “Carlo Lombardi” per i quotidiani e le agenzie di informazione. Diffusione, pubblicità, digitale, andamento occupazionale e retributivo, ed una anagrafe aggiornata del settore: testate quotidiane, editori, concessionarie di pubblicità, agenzie, centri stampa, pubblicata al termine della scorsa settimana, fotografa in maniera impietosa lo stato dell’industria dell informazione nel nostro Paese che a più riprese abbiamo documentato nel tempo in questi spazi.

Fotografia che viene ben sintetizzata dalle conclusioni nella premessa del rapporto: «Certo, si può stare fermi e difendere l’esistente, riducendo i costi il più possibile, sapendo però che domani venderai una copia in meno e pubblicherai una inserzione in meno di oggi. Il taglio dei costi può creare efficienza e ridurre gli sprechi, ma superato un certo limite impoverisce inevitabilmente il prodotto […] È tempo, in conclusione, che si torni ad investire nel prodotto, nel giornalismo di qualità, nell’approfondimento, in ciò che nel resto del mondo sta salvando i giornali: non tutti, ma solo quelli che meritano di essere salvati. È tempo che gli editori tornino a fare gli editori»

Al tempo stesso, come anticipavamo Venerdì, Il sottosegretario Vito Crimi, lo stesso giorno di pubblicazione del rapporto, nell’audizione in Commissione Cultura della Camera, ha spiegato le linee programmatiche del Governo in materia di editoria. Intervento, che naturalmente abbiamo visto/ascoltato con la dovuta attenzione, così come l’intervista rilasciata a Radio Radicale successivamente allo stesso, in cui vengono meglio qualificati e specificati alcuni degli aspetti trattati nelle linee programmatiche del Governo in materia di editoria.

Sempre con altrettanta attenzione, abbiamo ascoltato anche le parole del sottosegretario durante il suo intervento di Sabato 28 Luglio, a Cesenatico, del Rousseau City Lab, dedicato a “editoria e informazione nell’epoca digitale”.

Linee programmatiche, per tornare al dunque,  che, per essere sicuri che non ci sfuggisse nulla, abbiamo letto nel documento del testo dell’intervento in Commissione Cultura della Camera, reso disponibile sul sito del Sottosegretariato all’Editoria e all’Informazione.

Abbiamo dunque deciso di scrivere questa “lettera aperta” a Vito Crimi per fornire il nostro contributo su alcuni degli aspetti contenuti nella dichiarazione programmatica del Senatore Vito Claudio Crimi.

 

Finanziamenti Diretti all’Editoria:

Come Lei stesso riconosce, i finanziamenti diretti all’editoria si sono ridotti drasticamente e sono attualmente circa un terzo di quanto veniva erogato nel 2009, essendo passati dai 183.6 milioni di euro di allora a 63.4 milioni di euro dell’ultimo anno di cui vi è un consuntivo, del 2016, con tagli sostanziali a partire dal 2012, anno nel quale il suo predecessore, Paolo Peluffo, svolse un ottimo lavoro gettando le basi per una razionalizzazione del comparto. Lavoro che, ad oggi, al di là dei tagli, purtroppo è rimasto disatteso, come approfondiremo di seguito.

Le diciamo subito che siamo favorevoli a forme di sostegno all’editoria in nome del principio di pluralismo ma che certamente non lo siamo nei termini nei quali in passato, ed in buona parte ancora oggi, i finanziamenti vengono erogati, e conveniamo con Lei quando afferma che «Sull’insieme di strumenti a sostegno dell’editoria bisogna fare una riflessione complessiva, una riorganizzazione che consenta la centralizzazione della loro gestione affinché sia facilmente verificabile, con massima trasparenza, la reale incidenza nei bilanci delle aziende».

È evidente a tutti che attualmente tra le testate che vengono finanziate in quanto di proprietà di cooperative di giornalisti ve ne siano alcune che in realtà hanno assetti societari riconducibili ad un proprietario e non a cooperative di giornalisti. Dei cinque quotidiani nazionali da lei espressamente citati [Avvenire, Libero, Italia Oggi, Il Manifesto ed il Foglio], come abbiamo avuto modo di evidenziare a più riprese, ve ne sono alcuni che di fatto non avrebbero la titolarità ad ottenere contributi diretti.

Nello specifico, I tre quotidiani che ricevono le maggiori sovvenzioni sono: Avvenire, Libero e Italia Oggi. Da sole queste tre testate assorbono quasi un terzo [31.98%] di quest’area di contribuzione statale – aka soldi nostri – ed oltre un quarto [27.98%] del totale degli acconti erogati. Se vogliamo augurarci che non vi siano irregolarità, che invece sono emerse spesso e volentieri in passato, nondimeno vi sono aspetti che dimostrano come si giochi spesso nel torbido con risvolti inquietanti.

È il caso di “ItaliaOggi”, di Italia Oggi Editore – Erinne S.r.l., a sua volta di proprietà di Class Editori dal lontano 1991, che in base ai dati disponibili ha venduto una media di circa 40mila copie nel 2016, incluso il formato digitale, contro le poco meno di 60mila del 2015. Secondo i dati disponibili, i ricavi nel 2016 di Italia Oggi Editori – Erinne Srl ammontano a 19.6 milioni di euro con un risultato netto di esercizio positivo per 42mila euro. Si tatta insomma di una testata che fa parte di un gruppo editoriale, quotato alla Borsa Italiana dal 1998, con numerose ramificazioni che si fatica davvero a comprendere perchè debba ricevere dei contributi facendo così di riflesso in qualche modo concorrenza “sleale” ad altre testate a cominciare da quotidiano di Confindustria – che invece non riceve contributi diretti – di cui è il principale competitor nel nostro Paese.

Decisamente più torbida la vicenda di “Libero”, che pur essendo di proprietà di Angelucci, che guarda caso risulta indagato per truffa tentata [dal 2008 al 2011] proprio per il conseguimento delle erogazioni pubbliche e falso. Nel 2003 Libero ha chiesto ai proprietari del bollettino «Opinioni nuove» di prendere in affitto la testata. Il quotidiano è diventato ufficialmente il supplemento dell’organo ufficiale del Movimento Monarchico Italiano. In questo modo ha potuto beneficiare del finanziamento pubblico agli organi di partito[18], secondo quanto previsto dalla Legge 7 marzo 2001, n. 62[19]. Il d.P.R. 7 novembre 2001, n. 460 ha favorito la trasformazione in cooperative per tutte le imprese che intendono chiedere finanziamenti pubblici. Nel 2004 Libero ha acquistato la testata Opinioni Nuove e si è poi trasformato in cooperativa di giornalisti, pur rimanendo a tutti gli effetti di proprietà del gruppo Angelucci ancora oggi.  Insomma, detta in parole povere un bel giro di carte pur di spillare soldi allo Stato e dunque in ultima analisi ai contribuenti, alle persone. Aspetto che sommato ad una linea editoriale che dal “caso betulla”, ancora arruolato nel giornale, ai titoli razzisti e xenofobi rende ancor più vergognosa, se possibile, l’erogazione di fondi a favore di questa testata.

Crediamo non possa esservi dubbio alcuno che queste testate, ed altre, come, ad esempio, “Il Secolo d’Italia”, che riceve contributi non trascurabili nel il 2016, dopo aver ricevuto la bellezza, si fa per dire, di 69 milioni di euro dei contribuenti in 24 anni, pur essendo esclusivamente online da fine 2012.  In pratica la testata in questione riceve contributi alla carta stampata per un giornale online. Così come, per restare nella stessa area politica, si fatica  a capire su quali basi vengano erogati contributi a L’Opinione delle Libertà, pubblicazione che ha ben poco a che fare sia con la lbertà, volendo entrare nel merito, che con la  carta stampata visto che si tratta di un PDF [di due pagine, due] ed anche l’abbonamento è solamente “digitale”.

Riteniamo inoltre che ad un opera di trasparenza e ripulisti debbano affiancarsi anche elementi qualitativi che sino ad oggi non sono mai stati introdotti. Tra questi crediamo che uno dei principali parametri debba essere l’incidenza dei ricavi pubblicitari di una testata. A nostro avviso andrebbe introdotto un tetto affinché se una testata ha più del 30% di ricavi dalla vendita di spazi pubblicitari non le vengano riconosciuti contributi poiché è evidente che potenzialmente tale testata è in grado di stare sul mercato. Se invece si resta sotto tale soglia, come nel caso de “Il Manifesto”, per stare ad una delle testate da Lei citate, è chiaro che la testata in questione, in virtù del pluralismo e della libertà di espressione, debba ricevere un sostegno.

Ed ancora, nella legge del Novembre 2016, promossa dal Ministro Lotti, che evidentemente aveva molto più a cuore, diciamo, lo sport che l’editoria [come si desume anche dal suo account Twitter andando indietro nel tempo] e relativo decreto del Marzo 2017, in merito ai criteri di calcolo dei contributi, come nell’attuale sistema, i contributi sono calcolati in parte come rimborso di costi e in parte in base al numero di copie vendute. Vengono riconosciuti in percentuale più alta i costi connessi all’edizione digitale, al fine di sostenere la transizione dalla carta al web. Si prevedono parametri diversi a seconda del numero di copie vendute e si introduce un limite massimo al contributo, che non potrà in ogni caso superare il 50% dei ricavi conseguiti nell’anno di riferimento.

Si ritorni invece ai criteri della legge del 16 luglio 2012, n. 103, recante disposizioni urgenti in materia di riordino dei contributi alle imprese editrici, nonche’ di vendita della stampa quotidiana e periodica e di pubblicita’ istituzionale, promossa dall’allora Sottosegretario Paolo Peluffo, l’unico del recente passato che della materia aveva dominio e conoscenza, ma anche “polso” adeguato per resistere alle pressioni delle lobby, per usare un termine caro al M5S, contrariamente ai suoi successori.

Filiera Editoriale:

Siamo davvero lieti della sua attenzione nei confronti della rete di edicole. Attenzione sin qui praticamente mai registrata che le fa onore. Condividiamo assolutamente quanto Lei scrive al riguardo, affermando che si tratta di «Una preziosa rete distribuita nel territorio, che ha dovuto sottostare agli obblighi derivanti da un mercato regolato, obblighi che ancora gravano su di essi ma che non rispondono più ad una logica conseguenza dell’esclusiva che hanno gradualmente perso. Occorre ripensare ad una serie di interventi per valorizzare questa rete».

Al riguardo, se le fosse sfuggito, e/o se in nessuno dei numerosi incontri con le parti che ha tenuto dal suo insediamento le fosse stato fatto presente, le ricordiamo che, così come anche il contratto dei poligrafici, il contratto tra le organizzazioni di rappresentanza degli edicolanti e la FIEG è scaduto e non è mai stato ridiscusso e rinnovato da anni.

Al di là degli aspetti formali/contrattuali, ci spiace di doverle dire che non siamo per niente d’accordo invece quando afferma che le edicole devono trasformarsi, anche, «in luoghi di primo accesso da parte dei cittadini a servizi della Pubblica Amministrazione». Si tratta di una strada già battuta lo scorso autunno dalla FIEG che nell’Ottobre 2017 ha sottoscritto un protocollo di intesa con l’Associazione Nazionale Comuni Italiani secondo il quale a fronte di una riduzione dei canoni delle edicole per le occupazioni permanenti e temporanee di suolo pubblico ed esonerino dall’imposta le locandine editoriali dei quotidiani e dei periodici esposti nei locali pubblici, verrebbe data agli edicolanti la possibilità di ampliare le categorie di beni e i servizi offerti ai cittadini e turisti [pagamento ticket, prenotazioni visite mediche, spedizioni e recapiti corrispondenza, eccetera].

Se è singolare, per così dire, che tale accordo venga sottoscritto in assenza delle rappresentanze, dei sindacati, degli edicolanti stessi che, ancora una volta, vengono esclusi dal confronto, il punto sostanziale è un altro. Le attività di servizio, quali il pagamento delle utenze, ad esempio, sono già ampiamente fornite dalle edicole dotate di un terminale, ma questi servizi, come quelli di ricariche telefoniche [dove si và dallo 0.8% della TIM al 4% delle nuove compagnie telefoniche come Lycamobile, gratta & vinci [8%] e biglietti di trasporto urbano ed extra urbano [tra il un minimo dell’1% per gli abbonamenti annuali ad un massimo del 5%], in realtà le edicole si troverebbero, a loro insaputa, come si suol dire, ad erogare un servizio, che nella fattispecie sgrava da oneri prevalentemente la Pubblica Amministrazione, senza averne un vantaggio concreto, anzi avendo un’attività che consuma tempo e non genera un ritorno economico.

Se il presupposto è quello, assolutamente condivisibile, come detto, di valorizzare le edicole, si tratta di farle tornare a generare ricavi degni di questo nome per persone che, vale la pena di ricordarlo, lavorano 14 giorni di fila senza sosta, con orari che tutti noi conosciamo, per riposare una Domenica e dunque riprendere la loro attività per altri 14 giorni consecutivi, si tratta di identificare elementi di redditività e non solamente di “traffic building”, come ho provato ad esplicitare  nel mio primo libro, che naturalmente, se fosse di suo interesse, sono certo che l’editore non avrà difficoltà alcuna ad omaggiarle.

Al di là di questo aspetto, come anticipavo in una recente intervista a Radio Rete Edicole, la web radio del SINAGI, uno dei principali sindacati dei giornalai, il punto cardine sta nell’informatizzazione delle edicole. Le edicole, ma anche, se non soprattutto, gli editori, hanno bisogno che finalmente venga implementata l’informatizzazione delle edicole, il cui decreto legge emanato a metà 2012 dall’allora Sottosegretario Paolo Peluffo non è mai stato implementato e che, pur essendo stata riproposta nella recente riforma dell’editoria, non ha ancora un decreto attuativo che la renda operativa, mentre la road map operativa ne ipotizzava l’effettiva realizzazione entro il 2014. Quattro anni fa!!! Ed anche la legge sull’editoria promossa da Lotti prevedeva sostegni per l’informatizzazione delle edicole. Sostegni che, guarda caso, contrariamente a quello del credito d’imposta agli investimenti pubblicitari incrementali su quotidiani e periodici, non hanno mai avuto poi applicazione per mancanza dei decreti attuativi.

L’informatizzazione delle edicole, oltre a consentire saving per milioni di euro sui resi, ed evitare le tante “micro-rotture” di stock che quotidianamente si verificano creando un danno economico e di immagine, consentirebbe, finalmente, di conoscere i lettori, implementare attività e servizi di marketing a partire, banalmente, dalla realizzazione di fidelity card, e molto altro ancora, come abbiamo scritto più volte in questi spazi.

L’informatizzazione delle edicole agevola la possibilità di sondaggi, di ricerche su argomenti ad hoc e favorisce l’implementazione di servizi a partire, per citarne almeno uno, dalla raccolta di dati sul lettore, attraverso delle card appunto, sia mono editore che pluri editore, sulla falsariga di quelle da tempo utilizzate dalla grande distribuzione organizzata, che consentano di profilare l’offerta editoriale e pubblicitaria, che permettano di raccogliere informazioni sul lettore ed avviare programmi di fidelizzazione nel canale edicole.

Innovazione:

Innovazione e cambiamento ci pare di capire siano altre parole “care” al movimento del quale lei è esponente e rappresentante. Condividiamo che i sostegni sin qui forniti all’editoria non siano stati «proficuamente utilizzati dagli operatori per un corretto accompagnamento verso le nuove frontiere dell’innovazione», se non im minima parte, cosi come condividiamo l’ipotesi di lavoro relativa «all’avvento della tecnologia della blockchain, la tecnologia che consente di tracciare la genesi e il percorso dei prodotti del Web», ma riteniamo che gli aspetti sui quali sia necessario lavorare siano anche altri che non abbiamo trovato nella sua dichiarazione programmatica.

Innovazione di processo. L’organizzazione aziendale pressoché della totalità delle imprese editoriali nostrane ricalca modelli organizzativi degli anni ’80 che le aziende che operano in altri comparti, in altri mercati, hanno abbandonato almeno da un ventennio. È evidente che questo elemento è un fattore di rigidità e genera costi non sostenibili. Inoltre, sta scritto nel primo paragrafo della prima pagina del “bigino” sul management che a una determinata strategia deve necessariamente  seguire l’implementazione di un’adeguata organizzazione del lavoro che consenta al impresa di implementare tale strategia. Invece di sostenere crisi aziendali e prepensionamenti per i quali, dal 2014 al 2021 sono previsti stanziamenti per 120 milioni di euro, si intervenga in tal senso per favorire l’innovazione dei processi di cui hanno tanto bisogno le imprese editoriali.

Innovazione di prodotto. I primi giornali, così come li conosciamo oggi, nascono nel 18° secolo in Inghilterra. Se escludiamo l’introduzione del colore, il prodotto è rimasto sostanzialmente identico da allora. È chiaro che, invece dei numerosi restyling, a cui abbiamo assistito di recente nel nostro Paese, è assolutamente necessario intervenire in tal senso effettuando un vero e proprio redesign di quello che è oggi un giornale [di carta]. Il legislatore introduca agevolazioni ed incentivi in tal senso invece di favorire ulteriormente la liberalizzazione della distribuzione come continua a chiedere la Federazione Italiana Editori Giornali. Con mediamente l’85% delle revenues che, di fatto, derivano ancora dal prodotto cartaceo, crediamo che sia uno dei nodi che è doveroso scogliere , e che costituirebbero una base per il recupero di interesse da parte dei lettori, ed anche più che interessante in termini di recupero di marginalità. Al riguardo, a titolo esemplificativo, si ricorda che attualmente il NYTimes ha una foliazione di 15 pagine.

Innovazione nella filiera distributiva. Se abbiamo già dedicato una parte di questa, lunga, lettera, alla filiera editoriale tradizionale, vogliamo anche in questa parte rimarcare che i distributori locali guadagnano, anche, su quanto trasportano e sulla lavorazione delle rese, non sono dunque legati esclusivamente alle vendite come invece è il caso di editori, che però, come sappiamo, hanno ricavi significativi – seppur calanti, come noto – anche dalla vendita di spazi pubblicitari, e edicolanti, che invece vivono solo di quello. Non è un caso che l’Italia abbia un’incidenza doppia dei resi rispetto alla Francia, ad esempio.

L’anello debole della catena non sono le edicole, come pensano anche alcuni editori che, appunto, non perdono occasione per chiedere a gran voce la liberalizzazione della vendita dei giornali, credendo erroneamente che questo possa essere un modo per vendere di più, bensì i distributori locali baroni feudatari inamovibili, padroni della loro zona di competenza ed arroccati sulla loro incompetenza, despoti buzzurri di antica memoria che spadroneggiano nei confronti delle imprese editoriali e taccheggiano gli edicolanti impedendo qualsiasi armonizzazione, qualunque comunicazione tra editori e edicole.

Innovazione di approccio. La sfida principale non è tanto comprendere il futuro, quanto avere la capacità di adattarvisi. Nel 2020, e oltre, continueranno a esistere, per esempio, Repubblica o la RAI, ma questa continuità sarà accompagnata dalla riconfigurazione di ogni singolo bit del contesto mediale in cui opereranno. Aumenterà ulteriormente la variabilità. Non stiamo passando da grandi aziende a piccole organizzazioni, e neppure dal giornalismo “lento” a quello “veloce”: le dinamiche sono insieme su più assi. L’effetto principale dei media digitali è che non c’è un effetto principale. Il cambiamento apportato dalla rete, dagli smartphone e dalle app è così vasto da rendere impossibile l’identificazione di un solo elemento chiave, come scrivevo nell’analisi di scenario prodotta per “Link”.

Dopo dieci anni, almeno, di convegni e proclami al riguardo, si tratta, finalmente, di mettere al centro il lettore, le persone. L’importanza dell’informazione non sta scomparendo. La rilevanza di operatori professionali che vi si dedicano, i giornalisti, neppure. Con l’avvento dei social media, da Twitter a Newswire e al giornalismo partecipativo, i professionisti non sono stati rimpiazzati, ma riallocati a un livello superiore della catena editoriale, passando, o dovendo passare inevitabilmente, dalla produzione iniziale di osservazione della realtà a quella che pone l’accento sulla verifica e sull’interpretazione, dando un senso al flusso di testi, audio, foto e video prodotti dal pubblico. L’idea è che il giornalista si ponga al centro del processo, agendo da collettore di informazioni che provengono dalle fonti tradizionali e non, qualificando così ed elevando il proprio ruolo, altrimenti in declino. Scompaiono la linearità di processo e la passività dell’audience. È bene prenderne definitivamente atto, come da anni fa “The Guardian” con successo, e finalmente operare di conseguenza.

Ci scusi per la lunghezza della lettera, ma in meno era davvero difficile riuscire a contestualizzare correttamente i diversi aspetti legati al futuro dei giornali, e dell’informazione nel nostro Paese. Naturalmente restiamo a disposizione per approfondire, se d’interesse.

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