Una selezione ragionata delle notizie su media, giornalismi e comunicazione da non perdere, commentate.
- Spaccato dei comportamenti online che influenzano l’industria del turismo in Europa – comScore ha pubblicato il suo report sul retail online, utilizzando dati del panel multi-piattaforma per cinque nazioni europee [Francia, Germania, Italia, Spagna e Regno Unito] con l’intento di svelare i maggiori trend nell’Industria del turismo, tracciando le differenze tra i pattern comportamentali. Il Regno Unito è in testa con il 94 per cento della popolazione digitale che visita siti di viaggio – la percentuale più alta in Europa. I numeri sono: 67 per cento in Francia, 69 per cento in Italia e 86 per cento in Spagna. Comparate col desktop, meno mobile app hanno raggiunto il mercato di massa, composto da app con più di un milione di visitatori unici: dodici app hanno raggiunto quella soglia, mentre cinquantuno sono i siti ad avercela fatta. Nel gennaio dei 2018 la spesa di viaggi media su desktop è tra 350 e 460 euro per individuo, a seconda della nazione. il tempo trascorso su mobile rappresenta dal 20% al 35% del tempo totale. Alcune categorie di siti performano meglio in termini di attrazione degli heavy user del Turismo. Ad esempio, nel Regno Unito e in Germania i siti di info sul meteo sono rispettivamente 2.7 e 2.4 volte più inclini ad attrarre gli heavy user. In generale si osservano due tipi di comportamento: nazioni in cui i consumatori digitali frequentano di più, ma per visite brevi , contro nazioni in cui i consumatori visitano meno ma per per più tempo. Il Regno Unito Unito Unito e la Spagna fanno parte del primo gruppo, mentre, la Germania, l’Italia e la Francia rientrano nel secondo. L’Italia è l’unico Paese tra le cinque nazioni prese in considerazione a non crescere nel 2018 rispetto al 2017, ed è anche quella con la minor spesa media per persona. Ad abuntantiam, il nostro Paese è anche quello in cui i siti di viaggio hanno la minor audience ed il minor tempo speso. Intanto l’associazione di categoria dei tour operator investe [butta via?] un milione di euro in una campagna per spiegare quanto siano [ir]rilevanti. Chissà com’è che non sono sorpreso dai risultati dell’indagine.
- Se la fiducia nei giornalisti è più bassa di quella nei parrucchieri – Un sondaggio condotto dall’Università dell’Insubria ha misurato la fiducia nelle istituzioni, nelle professioni, e sui motivi per cui l’informazione non coinvolge più come prima. Dal campione di 1.106 persone che hanno risposto al sondaggio su fiducia nelle istituzioni, nelle professioni e nei media, non esce un quadro molto confortante, anzi. Dai risultati infatti, ne emerge un quadro non proprio positivo, ad essere gentili, quello che indica la fiducia verso la professione giornalistica è tra i più bassi, ottenendo solo l’8.2% delle risposte del campione, subito dopo i parrucchieri, con l’8.3%. Ma non solo. Il sondaggio rivela infatti che il principale motivo per cui non ci informiamo più è che l’informazione è diventata troppo spettacolarizzata pur di attirare l’attenzione [55%], come a dire che qualcosa è stato fatto per cambiare la situazione, ma evidentemente nella direzione sbagliata. Segue l’idea che l’informazione sia troppo condizionata da interessi di parte [44%]. Il sondaggio è stato effettuato su iniziativa del prof. Franz Foti, docente al corso di giornalismo del secondo anno, che ha evidenziato come dal sondaggio si evince che «non siamo più una società top-down, ma bottom-up, i consumatori vogliono trasparenza dall’informazione». Basta dedicare il tempo necessario alla visione del video del panel su “Big data, geopolitica e il ruolo della Russia”, tenutosi Domenica scorsa durante il Festival della Tv e dei Nuovi Media, ad esempio, per capire quale sia nei fatti la distanza tra l’orientamento di molti dei relatori, tutti direttori di testate giornalistiche, e i risultati emergenti da questa ricerca, e da molte altre. Un gap tra quello che le persone vorrebbero e quello che invece viene loro proposto che, dopo dieci anni di convegni, di discussioni su qualità e trasparenza dell’informazione, appare nella sostanza ancora molto ampio, troppo ampio, come ben sintetizza Staino.
- Arrivano i “Gucci Connectors” – Allo splendido lavoro di content marketing e comunicazione fatto negli ultimi due anni da Gucci avevamo già dedicato spazio a Marzo di quest’anno. Parte ora una nuova operazione sperimentale che appare davvero interessante. Nella boutique, battezzata “Gucci Wooster”, che Gucci, a New York, ha inaugurato domenica scorsa all’insegna dello storytelling, questo non è più solo una modalità di comunicazione, ma diventa una parte integrante della vendita. Gucci sperimenterà infatti “nuove modalità di servire la sua clientela”. Come si legge in una nota, «grazie a un innovativo inquadramento del personale, i visitatori saranno accolti da un gruppo di ambasciatori del marchio: i “Gucci Connectors”, in funzione di narratori, il cui scopo sarà quello di coinvolgere i clienti nella particolare narrativa della marca». Nello specifico, spiegano a Pambianco dall’azienda, è stato selezionato un vero e proprio “cast” di connectors, ambasciatori Gucci che non provengono necessariamente dal mondo delle vendite, ma che sono appassionati del brand e in grado di trasmettere al meglio le storie, la filosofia e i valori del marchio. Il loro scopo non è solo quello di vendere – uno dei risultati possibili – , ma di creare un legame fra il brand e il cliente [la vendita è solo uno dei possibili risultati]. Anche nell’abbigliamento, i Gucci Connectors si differenziano dai sales-assistant degli altri negozi: il loro look è più informale. Nella ricerca di personale adatto a ricoprire tale ruolo, tra le altre cose, nella job description viene spiegato che il Gucci Connector «è responsabile di fornire ai nostri clienti un servizio eccezionale soddisfacendo le loro esigenze e aspettative individuali, oltre a servire come “Gucci Ambassador” promuovendo la filosofia e i valori del marchio. La passione per il marchio viene trasmessa attraverso la creazione di un’esperienza cliente di marca e di lusso […] Fornire un’esperienza di servizio clienti eccezionale superando le loro aspettative, dimostrando un’eccellente conoscenza dei prodotti e della storia e del patrimonio di Gucci in conformità con la cerimonia di vendita di Gucci […] Capacità di discutere con i clienti e dare consigli sulle tendenze generali nel mondo della moda e gli sviluppi nel mercato del lusso, mostrando passione per la moda e prodotti di lusso». Straordinaria operazione che conferma come il racconto, lo storytelling, sia sempre più una parte imprescindibile della comunicazione d’impresa.
- Giornalisti & coworking – Lunedì 7 maggio scorso il primo coworking per giornalisti freelance ha visto la luce. L’iniziativa è dell’Associazione Stampa Subalpina, il sindacato dei giornalisti del Piemonte, che ha voluto creare un luogo dove ospitare la comunità dei giornalisti torinesi freelance e indipendenti. A distanza di soli due giorni ha aperto una “casa per i giornalisti” anche Associazione Stampa Romana, con la quale collaboriamo da tempo. La sala, al primo piano dello stabile dove ha sede il sindacato dei giornalisti del Lazio, aperta a ciclo continuo tra il lunedì e il venerdì in un luogo strategico come il cuore della Capitale, accanto a sedi istituzionali e sociali, ha 28 posti attrezzati dotati di disponibilità elettrica, di wifi, di schermo video, di proiettore in alta definizione. Il tutto senza alcun onere, ma con una contribuzione su base volontaria, come si può leggere nel regolamento. Si tratta di iniziative assolutamente meritevoli a cominciare dal fatto che possono contribuire a contribuire fattivamente al networking e dunque alla creazione di progetti di auto-imprenditorialità, che a mio avviso rappresentano attualmente una delle poche possibilità occupazionali per i moltissimi giornalisti non assunti nelle redazioni. Dall’altro lato sono altrettanto certamente il segno dei tempi di un comparto che, a dieci anni dall’inizio della crisi, ancora stenta, in particolare nel nostro Paese, ingessato da logiche che non sono di mercato, a trovare una via di uscita che renda sostenibile economicamente la trasformazione digitale al di là, appunto, dei tagli dei posti di lavoro nelle redazioni, con quella che uno studio della Casagit definisce «una frana occupazionale». Il perché, oltre a quanto scriviamo quasi quotidianamente in questi spazi, lo spiega, o ricorda, a secondo dei casi, Michele Marrone – Responsabile Communications, Media & Technology di Accenture Italia, sintetizzando come «I quotidiani continuino a soffrire per la mancata integrazione nel mondo della comunicazione digitale». Un coworking salverà giornalisti, ed aspiranti tali? Come unico intervento certamente no, ma speriamo possa essere un tassello in tal senso.
- La comunicazione [digitale] medico-paziente – La maggior parte dei cittadini italiani preferisce ancora accedere ai servizi sanitari di persona, soprattutto se si tratta di un consulto medico [86%], del pagamento delle prestazioni [83%] e del ritiro dei referti [80%]. L’indagine condotta dall’Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità in collaborazione con Doxapharma su un campione di 2.030 cittadini mostra che è ancora il telefono lo strumento privilegiato per prenotare visite ed esami [51%], mentre l’uso del canale web appare abbastanza limitato e confinato alle fasi di accesso alle informazioni su prestazioni e strutture sanitarie [40%] e ritiro dei documenti clinici [21]). Soltanto la fascia anagrafica dei 45-54enni mostra valori di utilizzo del digitale sopra la media in entrambe le operazioni [rispettivamente 47% e 27%]. La maggior parte dei cittadini che non hanno utilizzato gli strumenti digitali per accedere ai vari servizi li considera poco affidabili, ma anche la mancanza di competenze è un forte ostacolo: sono tre su dieci i cittadini che non si sentono in grado di utilizzare questi strumenti, soprattutto fra i più anziani. Le App rappresentano una quota sempre più rilevante dei servizi digitali utilizzate dai cittadini, soprattutto per quanto riguarda le App informative, che si stanno diffondendo velocemente. Un cittadino su quattro dichiara di utilizzare App per cercare le farmacie di turno (25%), uno su cinque per trovare la farmacia più vicina e il 19% per informarsi sui farmaci. La fascia di età più incline a utilizzare questa tipologia di applicazioni è quella fra i 35 e i 44 anni, in cui l’uso sale rispettivamente al 45%, 36% e 30%. Le App di maggior interesse fra i cittadini, invece, sono quelle in grado di verificare la presenza di un farmaco in farmacia e prenotarlo e quelle per monitorare i tempi di attesa in pronto soccorso, anche se in entrambi i casi si registra una mancanza di offerta. I cittadini si mostrano ancora poco digitali anche nella comunicazione col proprio medico: ben sette su dieci preferiscono incontrarlo di persona. Fra coloro che si servono di strumenti digitali, la maggior parte utilizza l’email [15%, il 20% è interessato a usarla], poi vengono gli Sms [13%] e infine WhatsApp, il cui uso è passato dal 7% di un anno fa al 12% dell’ultima rilevazione. I cittadini usano Sms e WhatsApp soprattutto per fissare/spostare visite (50% e 44%) e comunicare lo stato di salute [38% e 35%]. Oltre un cittadino su tre consulta il medico specialista come prima fonte di informazione, mentre la rete è utilizzata ancora raramente, tranne che per informarsi sulle vaccinazioni [9%]. La maggior parte dei cittadini preferisce rivolgersi al medico di famiglia per farsi indirizzare verso cure più specifiche, mentre il restante 20% si suddivide fra chi ritiene le informazioni online poco affidabili, chi le considera troppo generiche e chi invece di ammette di non saper utilizzare i canali digitali. Soltanto la fascia dei giovanissimi [15-24enni] si affida più frequentemente a Internet come prima fonte di informazioni [il 22% sui vaccini, l’11% quando soffre di sintomi influenzali]. I costi del “non digitale”: oltre 5 miliardi di euro di impatto se l’80% dei cittadini effettuasse online il ritiro di documenti clinici, la richiesta di informazioni, la prenotazione e il pagamento di visite e esami. Basterebbe investire una quota di questi soldi per creare cultura al riguardo ed avere efficacia ed efficienza del sistema, e saving economico nel medio termine.
- La “scalata” al sindacato giornalisti con 7.500 euro cash – Se ci sono organismi sindacali che fanno un buon lavoro, come raccontiamo sopra in giornalisti e coworking, in altri casi pare che ci siano invece grossi problemi, come pare davvero essere il caso del Sindacato Unitario dei Giornalisti della Campania [SUGC]. Secondo quanto riportato infatti, Domenico Falco, Mimmo per gli amici, vicepresidente dell’ Ordine dei Giornalisti della Campania, presidente del Corecom, leader indiscusso di un esercito di 11.000 pubblicisti e di una sorta di movimento-sindacato alternativo, il Movimento Unitario Giornalisti [MUG], si sarebbe presentato il 27 aprile scorso nella sede del SUGC con in mano 7.500 euro in contanti per pagare 150 tessere a 50 euro l’ una. Dietro l’ operazione ci sarebbe Carlo Parisi, padrone assoluto del sindacato calabrese, e la benedizione dell’ editore televisivo Lucio Varriale, patron di fatto di Julie Tv e quindi per definizione controparte di un sindacato di giornalisti. Nel pacchetto di tessere compaiono quasi tutti i suoi familiari [la figlia, il figlio, la ex compagna del figlio, il genero] e alla consegna del rotolo di banconote erano presenti un collaboratore e un parente di Varriale. Al riguardo Falco si sarebbe giustificato smentendo il tentativo di scalata e affermando che la presenza di persone riconducibili a Variale fosse perché «io volevo essere accompagnato perché avevo paura a camminare con 7.500 euro addosso». Mamma mia. Da brividi…
- Vini italiani da raccontare meglio – I vini italiani di alta gamma devono essere raccontati meglio, con il lavoro dei distributori ma anche con le risorse del digitale. Soltanto in questo modo, con un buon storytelling, si può recuperare terreno nell’export, perché i vini dell’Italia, pur essendo primi per volumi in due paesi chiave come Usa e Cina, hanno prezzi inferiori e quindi un’esportazione meno efficace per le aziende. Negli Stati Uniti per esempio, fra i vini stranieri quelli della penisola sono al primo posto nella quota di mercato per volumi con il 29% e raggiungono il 32% della quota a valore. I vini francesi, invece, partendo da una quota del 12% a volume raggiungono il 29% a valore. In Cina i vini italiani sono appena al 5% a volume e al 6% a valore, mentre la Francia è al 31% e al 42% rispettivamente. Anche l’Australia, che non ha una grande tradizione vinicola, è riuscita a fare meglio dell’Italia nel paese asiatico: 16% a volume e 24% a valore. Lo studio, effettuato da Altagamma e presentato in questi giorni, evidenzia che per i ristoratori gli elementi di maggior valore nel rapporto con i distributori e i produttori sono la disponibilità di un efficace storytelling e di una proattiva veicolazione di notizie sulla cantina e sulle etichette. Questi elementi agevolano non solo la selezione dei vini, ma anche la relazione con il cliente finale. «Nessun paese è attrezzato per lo storytelling come il nostro», ha detto Matteo Lunelli, vicepresidente di Altagamma ma prima ancora presidente e a.d. delle Cantine Ferrari. «Abbiamo fin troppe cose da raccontare, è una grande ricchezza. Certo dobbiamo diventare più bravi nell’utilizzo degli strumenti digitali che stanno diventando sempre più canali centrali. La passione, e le vendite, scorrono attraverso il web e l’Italia è ancora fanalino di coda». Ce ne siamo accorti ampiamente, a partire dalla nostra analisi sulla comunicazione sui social di Vinitaly.
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