Il 21 Maggio prossimo venturo, dalle ore 10 alle 13 all’Università Colombo [Via San Marco, 2 – Milano] si terrà il convegno “Blogger, influencer, giornalismo: definiamo regole e confini del settore e della professione” nel quale, tra gli altri, farò da relatore. La partecipazione al convegno accredita anche tre crediti formativi e l’annuncio dell’iniziativa ha scatenato una ridda di polemiche che la dice lunga sulla confusione sul tema, con da un lato il timore di perdere ulteriori ricavi e dall’altro una concezione della professione di giornalista ferma agli anni ’80. Ci sarà da divertirsi, diciamo.
In attesa di quel giorno alcuni spunti e appunti che potrebbero tornarmi utili durante il mio intervento, e che magari spero possano aiutare a fare chiarezza su un tema di cui si parla molto, ma spesso in maniera impropria, e che guarda caso è vicino a quello del master che abbiamo lanciato a metà Aprile. Proverò ad essere il più didascalico possibile.
Iniziamo col dire che i blogger NON esistono, così come NON esistono gli influencer. Non si tratta di professioni, né di qualifiche professionali. Chi le utilizza in tal senso raggiunge esclusivamente l’obiettivo di coprirsi di ridicolo esplicitando la propria ignoranza sul tema.
Esistono avvocati, commercialisti, cuochi, esperti di marketing e comunicazione, ed anche molti giornalisti, tra gli altri, che hanno quel che viene convenzionalmente chiamato un blog, nel quale normalmente esprimono i loro pareri, le loro opinioni relativamente all’argomento sul quale hanno un expertise da esprimere. Altrettanto esistono ancora una volta avvocati, commercialisti, cuochi, esperti di marketing e comunicazione, ed anche molti giornalisti, tra gli altri, la cui esperienza nel settore in cui operano fa si che venga loro riconosciuta autorevolezza e dunque influenza nel loro campo. Costoro sono dunque influencer e, se hanno una scarsa presenza in Rete e relativamente poco seguito sui social, come vedremo, micro-influencer.
Calciatori, musicanti e musicisti, starlette e altri NON sono influencer sono celebrities, personaggi famosi a vario titolo che prestano, appunto, la loro fama, previo compenso naturalmente, anche alla comunicazione d’impresa. Potremmo definirli per sintesi i “testimonial 2.0”. La versione riveduta e attualizzata di quelli che erano, e sono, i testimonial. Un mondo completamente diverso da professional e persone comuni, da utilizzare così come vengono utilizzati i testimonial. Cosa che, ad esempio, per stare a cose recenti, lo spot di Kena Mobile, con Banfi e Fedez, fa in maniera assolutamente inadeguata, ad essere gentili.
Se dunque la relazione tra celebrities e brand è prettamente utilitaristica in termini di congruità di immagine tra il marchio, l’azienda, e l’immagine della celebrity da ingaggiare, pagandola, ben diverso è il discorso per quanto riguarda professional e “persone normali”.
In questo caso infatti, anche se la relazione può essere monetaria, soprattutto quando impiega tempo e know-how di chi viene coinvolto che dunque giustamente deve avere anche un corrispettivo economico, il rapporto andrebbe, va, impostato in termini di coinvolgimento e vantaggio reciproco. Un buon esempio concreto in tal senso è il caso del lavoro di Enel nel quale, come altri [inclusi dei giornali, per inciso], sono stato coinvolto negli ultimi due anni.
Infine, i micro-influencer, “persone normali” con una scarsa presenza in Rete e relativamente poco seguito sui social, diciamo sotto i 10mila follower per dargli una dimensione quantitativa, possono essere coinvolti sia economicamente, ovviamente con corrispettivi di gran lunga inferiori, che relativamente ai loro interessi, alle loro passioni di cui già parlano in Rete e sui social delle quali i loro contatti li sentono abitualmente parlare. Si tratta di una categoria che sin ora è stata ampiamente sottovalutata, e complessivamente sottoutilizzata, da parte dei brand.
Per quanto riguarda le celebrities si lavora, in collaborazione con le agenzie specializzate, in maniera classica, tradizionale, mutuando le modalità normalmente adottate nel rapporto con i testimonial e adattandole a canoni e criteri della Rete e dei social. Non a caso il loro utilizzo, che invece viene fatto prevalentemente in maniera impropria, ingaggiando le celebrity in una logica di viralità del messaggio, secondo i più recenti dati a livello internazionale, non conduce, se non marginalmente, alla “brand discovery”, alla creazione ed aumento della notorietà di marca.
In riferimento invece alle tre categorie di influencer sopra esemplificate [dai macro ai micro influencer] il lavoro è più articolato e complesso. Si tratta infatti prima di tutto di identificare chi essi siano attraverso la social network analysis e il social media listening/monitoring [lasciate perdere Klout ed altre amenità sui generis], dunque stabilire un piano di lavoro, possibilmente continuativo ed articolato nel tempo, per poi successivamente contattarli e convenire reciproci impegni e vantaggi. Sotto questo profilo le piattaforme attualmente disponibili, e in particolare quelle attive nel nostro Paese, sono di scarso ausilio se non eventualmente nella fase finale di esecuzione e verifica/controllo.
Insomma, rispetto a quanto viene normalmente fatto, dal mio personalissimo osservatorio, c’è ancora molta strada da fare per utilizzare al meglio questa leva di marketing, raggruppata complessivamente sotto la definizione di influencer marketing, con tutti i pericoli che le generalizzazioni comportano, come abbiamo visto, e i dati sembrano darmi ragione.
Infatti, secondo uno studio pubblicato la scorsa settimana, anche i “big brand” stanno buttando via una quota consistente del loro budget. Dai dati di Points North Group, società specializzata nello screening e misurazione dell’influencer marketing, brand come quello della catena alberghiera di lusso Ritz-Carlton starebbero sprecando una percentuale molto elevata del loro budget in contenuti promo per post di influencer che avrebbero sino al 78% di fake followers e anche per brand come Pampers o Magnum si ha rispettivamente un’incidenza del 32 e del 20 percento di fake followers, passando per il 25% di Crocs. Fenomeno che peraltro era stato reso evidente già ad inizio 2018 con chiari segnali di frode anche da parte di una famosa giornalista della CNN oltre che di altre celebrities.
Al di là della grossolanità con cui vengono pianificate nella maggior parte dei casi le campagne di influencer marketing, come dimostrano i dati sopra riportati, anche sull’aspetto qualitativo c’è molto da lavorare ancora.
Secondo una desk research, condotta da Mavrck, una delle tante piattaforme di influencer marketing che esistono, su 6.500 influencer e 35mila post per sette diversi segmenti di mercato, le celebrities sono ampiamente sopravalutate mentre, per contro, il valore dei micro-influencer, soprattutto per i brand che operano in mercati di largo consumo, è decisamente sottovalutato.
Dallo studio emerge infatti come i micro-influencer, sia per i post che caricano su Instagram motu proprio che per il branded content, per i post sponsorizzati, abbiano un engagement rate decisamente superiore rispetto agli altri. Aspetto che emergeva con chiarezza anche da altre ricerche sul tema effettuate in precedenza.
Da sempre la comunicazione tra pari è quella che funziona meglio. Continuare a perseguire logiche di comunicazione top-down con la celebrity di turno che si fa bello, a spese del brand di turno, certamente ha un reach importante ma altrettanto una credibilità ed un appeal decisamente ridotti che non valgono la spesa, l’investimento, secondo me.
Ci vediamo a Milano il 21 per approfondire grazie anche, naturalmente, al contributo degli altri relatori tra i quali, solo per citarne alcuni, Massimo Russo, Direttore della Divisione Digitale del Gruppo Espresso, Domitilla Ferrari, Marketing & Communication Director di Webranking, e Annalisa Monfreda, Direttore di Donna Moderna e Star Bene, alla quale, tra le altre cose, voglio chiedere che ne pensa dell’account Instagram della sua collega Silvia Grilli, Direttore di Grazia, che, per stare in tema del convegno, mi sembra abbastanza “spinto” promozionalmente per una giornalista professionista. Ve l’ho detto che ci sarà da divertirsi. Non mancate.
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