La scorsa settimana la copertina di Wired, e la relativa “cover story” dei «due anni che hanno scosso Facebook, e il mondo intero», di feroce critica al social più popoloso del pianeta, sono state riprese, commentate e enfatizzate, da tutti i media del mondo.
Altrettanto è avvenuto con i dati di eMarketer dai quali emergeva una flessione significativa nell’utilizzo di Facebook da parte dei giovani statunitensi e britannici. Notizia anche in questo caso ripresa ed amplificata dai media a livello internazionale, e naturalmente anche in Italia, con evidente malcelato gaudio dei segnali di difficoltà della piattaforma social.
Un j’accuse così potente da spingere Campbell Brown, l’ex giornalista della CNN assunta poco più di un anno fa per occuparsi delle “news partnership”, a sentenziare che «Voglio essere molto chiara rispetto al fatto che il mio lavoro non è di reclutare persone dai publisher per mettere le loro cose su Facebook. Il mio lavoro non è convincerli a rimanere su Facebook. Se qualcuno ritiene che essere su Facebook non sia adatto alla sua attività, non dovrebbe essere su Facebook. Parliamoci chiaro. Il mio lavoro non è rendere felici gli editori. Il mio compito è garantire che ci siano notizie di qualità su Facebook e che gli editori che vogliono essere su Facebook e vogliano fare notizie di qualità su Facebook abbiano un modello di business che funzioni. È molto diverso. Quindi se qualcuno sente che questa non è la piattaforma giusta per loro, allora non dovrebbe essere su Facebook. Non ci consideriamo la risposta al problema».
Risposta frutto, anche, delle ulteriori accuse giunte dal Brasile da parte del “Folha de S Paulo”, che pochi giorni prima aveva annunciato che non pubblicherà più i propri contenuti sulla sua fanpage mantenendola aperta [la pagina ha 6 milioni di fan] ma senza aggiungere nuovi contenuti, dando voce ad una chiara ostilità, che potrebbe allargarsi a macchia d’olio visto quel che succede anche in altri Paesi, e resa, appunto, ancor più manifesta da Wired e dall’enfasi sui dati di eMarketer succitati, con alcuni organi d’informazione economico- finanziaria del nostro Paese che addirittura dedicano la loro copertina al “declino di Facebook”, con un punto interrogativo messo lì più per dovere che per convinzione, citando anche altri elementi con possibili ripercussioni negative emersi negli ultimi giorni.
Se a questo si aggiungono, in particolare in Europa ma non solo, la “Netzwerkdurchsetzungsgesetz”, legge tedesca entrata in vigore dal 1 Gennaio di quest’anno con multe sino a 50 milioni di euro se i social non rimuovono tempestivamente “fake news” e incitamenti all’odio, che pare Macron in Francia voglia “copiare”, e la sentenza in Belgio che minaccia di multare Facebook per un importo sino a 125 milioni di euro se non si adeguerà alla legge sulla privacy del Paese, si capisce come non sia certo un buon periodo per Zuckerberg & Co.
Se sulle attuali difficoltà di Facebook non ci possono essere dubbi, come ha riconosciuto lo stesso Zuckerberg nella recente presentazione dei risultati 2017, da qui a predire la “Facebook apocalypse”, il declino e la scomparsa della piattaforma social ce ne passa. Vediamo di mettere ordine al riguardo partendo da quello che è uno dei “basic” del marketing: il ciclo di vita di un prodotto/servizio, come anticipavo nella mia intervista a Radio InBlu, il network radiofonico nazionale di matrice cattolica [ascolta il podcast dell’intervista sotto riportato].
Il ciclo di vita, per dovere di cronaca nei confronti di coloro che non fossero familiari con il tema, viene tradizionalmente caratterizzato da quattro fasi: introduzione, sviluppo, maturità e declino o, in alternativa, rivitalizzazione. E qui sta il punto.
I prodotti o i servizi, quale Facebook semplificando per sintesi, hanno un loro ciclo di vita che ricorda un po’ quello umano. I prodotti/servizi hanno però il vantaggio di poter rinascere in uno stadio della loro vita e, utilizzando nella maniera giusta gli ingredienti del marketing mix, possono anche evitare il loro declino.
A 14 anni dalla nascita, al di là delle singole questioni, non vi è dubbio che Facebook sia entrato, con oltre due miliardi di utenti attivi nel mese secondo gli ultimi dati, nella fase di maturità e quindi potenzialmente sia prossimo alla fase di declino [che evidentemente può avere comunque tempi più o meno dilatati o, altrettanto, più o meno rapidi].
Se si osserva il trend del numero di utenti attivi – vedi grafico sottostante – si vede come negli ultimi due anni la crescita non sia generata, se non in maniera relativamente marginale, da USA/Canada e Europa, con addirittura un calo di 700mila iscritti oltreoceano nell’ultimo trimestre. Il problema è che anche nel resto del mondo sinché non riuscirà ad entrare nel mercato cinese, cosa tentata più volte e si qui mai realizzata, la crescita e lo sviluppo, almeno sotto il profilo quantitativo, sono plafonati, suscettibili di incrementi relativamente modesti.
Per quanto riguarda i giovani la perdita è fisiologica, e molto sicuramente continuerà, almeno a livello di frequenza di uso se non di valori assoluti, poiché ovviamente i teenager non vogliono trascorrere il loro tempo nello stesso luogo dove stanno i loro genitori e forse anche i loro nonni. Avviene nella vita reale ed ancora una volta quel che accade con Facebook dimostra quanto debole sia ormai la separazione tra online e offline. Altro elemento che per quanto riguarda USA/Canada ed Europa, i mercati a maggior redditività per Facebook, non gioca a favore della piattaforma social.
È in funzione di questi elementi, giustificati da una ricerca la cui irrilevanza è evidente fosse solo per il fatto che Facebook non ha bisogno di farne sapendo precisamente tutto su ciascuna persona iscritta, che Zuckerberg, come noto, ha scritto il 12 Gennaio scorso un post pubblicato sulla sua pagina Facebook nel quale ha annunciato maggior attenzione e priorità alle interazioni tra le persone. Raggiunta la fase di maturità, con ormai un livello molto vicino alla saturazione del news feed anche in termini di affollamento pubblicitario, che del resto Facebook considera come un pericolo da fine 2016, non resta che tentare la carta di far aumentare le interazioni tra coloro che sono già iscritti così da mantenerli “felici” ed al tempo stesso profilarli meglio e di riflesso vendere la pubblicità a prezzi maggiori.
Si tratta di “una scelta obbligata” che Facebook ha compiuto nel momento giusto per i propri interessi, almeno finché non potrà contare anche sul mercato cinese, cosa che potrebbe anche avvenire in tempi ancora molto lunghi, o non avvenire affatto naturalmente. Si deve certamente anche a questo nuovo indirizzo strategico la posizione espressa da Campbell Brown citata in apertura dell’articolo. Allo stato attuale, nel breve-medio periodo non vi è altra possibilità per rivitalizzare il ciclo di vita del social network, anche perché è evidente che l’alternativa, che qualcuno suggerisce, è assolutamente peregrina e non garantirebbe neppure lontanamente gli attuali ricavi, figurarsi una espansione/rivitalizzazione.
È però necessario fare dei distinguo che nell’ambito del piano di Facebook potrebbero fare la differenza, e naturalmente non solo per la piattaforma social ma anche per brand e newsbrand, seppur in modo distinto per ciascuna di queste macro-categorie.
Se infatti si comprendono, come detto, i motivi alla base delle recenti scelte di Facebook sono i dettagli e le modalità con cui questo avviene che lasciano quantomeno perplessi.
Le communities, quelle su cui ora Facebook preme l’acceleratore, qualsiasi community, vive dello scambio di informazioni senza le quali implode, cessa di esistere. Lo ha spiegato bene Manuel Castells quando ha parlato di “Informazionalismo”, dicendo che «La Rete è un ecosistema sociale che, abbattendo le barriere spazio temporali, favorisce la comunicazione. La sua stessa natura è lo scambio d’informazioni». Da questo punto di vista porre sullo stesso piano i newsbrand ed i brand, penalizzandoli in egual misura, è un errore sia tattico che strategico.
Si tratta di un errore tattico poiché, seppure il concetto di media è mutato completamente rispetto al passato, con l’ecosistema dell’informazione che è fatto sempre più non solo dai legacy media ma anche dalle piattaforme social, dagli “influencer”, e da molto altro ancora, è chiaro che il peso dei newsbrand, inclusi i broadcaster, resta importante e scontrarsi con loro in maniera diretta non è assolutamente conveniente e consigliato, come dimostra quanto riportato in apertura dell’articolo e, se necessario, conferma, per contro, l’ottimo lavoro svolto da Google in tal senso nell’ultimo triennio. Che da allora ad oggi le parti si siano invertite con Alphabet a giocare la parte del “buono” e Facebook sempre più quella del “cattivo” lo testimonia con estrema chiarezza.
É un errore strategico per almeno due motivi. In primis perché se si escludono pochi brand, dovendo azzardare una stima non più di 500 al mondo, gli altri non creano contenuti di qualità, non sviluppano una politica di relazione sui social, a cominciare da Facebook, e dunque effettivamente il loro valore è tendente a zero. In tutto il mondo le piccole-medie imprese non hanno né le risorse né la cultura per creare valore attraverso la produzione di contenuti. Va bene che usino Facebook, ed eventualmente gli altri social, così come usano/usavano le televisioni ed i giornali locali, come un mezzo a pagamento dal quale possono trarre vantaggio pagando.
Ben diverso è invece il discorso per quanto riguarda i newsbrand che, al netto delle critiche, a volte anche “spietate”, mosse in questi spazi, possono avere un ruolo molto importante per Facebook, e viceversa. Come abbiamo detto, l’aumento di visibilità di contenuti che vengono dai vicini, dai propri contatti, può accentuare l’effetto chiusura in bolle di opinioni omogenee [deriva già da tempo presente su FB], mentre in questo il ruolo dei newsbrand, se svolto correttamente e non come invece prevalentemente finalizzato sin qui, può quantomeno attenuare il fenomeno.
Inoltre, l’idea di affidarsi, ed investire, su “community leaders”, può essere di contorno, di supporto alla nuova strategia di Facebook, ma è evidente che da sola non sia sufficiente. Se, come abbiamo detto, qualunque community vive di informazioni senza le quali implode, svanisce, il ruolo dei newsbrand, che guarda caso sono conosciuti anche come, appunto, industria dell’informazione, può essere cruciale per la rivitalizzazione del social network. É per questa ragione di fondo che penalizzarli in egual misura come i brand, oltre ad essere un errore tattico è un errore strategico.
Certo, come abbiamo scritto più volte, anche di recente, i newsbrand dal canto loro devono cessare una volta per tutte l’attuale approccio basato sui click e mettere, finalmente, al centro le persone. Uscire dalle loro “paginette” ed entrare in relazione veramente con le persone e le diverse communities d’interesse. É necessario entrare nelle communities, nei gruppi e fornire loro notizie, informazioni, argomenti di loro interesse. Stabilendo veramente una relazione e creando nuovi spazi di confronto e discussione nei propri siti web per valorizzarla, come ho provato a spiegare in maniera approfondita, non più tardi di ieri, sul sito della FERPI, la Federazione Relazioni Pubbliche Italiane, con cui collaboro attivamente in qualità di membro del comitato scientifico di “InspiringPR”
Facebook senza informazioni rischia seriamente di diventare sempre meno importante e interessante ed anche l‘idea di superare il problema delle “fake news” chiedendo direttamente alle persone se conoscono una certa fonte giornalistica [un sito, un giornale, una tv] e se si fidano di quel media, comunicata il 19 Gennaio scorso, è pessima. Se infatti teoricamente sarebbe meraviglioso concettualmente affidare direttamente alle persone la valutazione dell’affidabilità dei media, compiendo così finalmente un percorso di “democrazia dal basso”, non è per nulla certa la capacità di giudizio e di discernere sull’affidabilità delle fonti, sia per il ben noto fenomeno del “confirmation bias” che per limiti culturali, diciamo, che del resto sono proprio quelli che contribuiscono alla diffusione delle “fake news”. Lo ha spiegato bene in una battuta Massimo Russo, Managing Director, Digital Division GEDI e Ceo HuffPostItalia, che al riguardo ha scritto: «Vi prego, qualcuno dica a Mark che la folla è quella che, messa di fronte alla scelta da Ponzio Pilato, decise compatta di liberare Barabba #nonimpariamonulla?»
É insomma giunta davvero l’ora che Facebook ed i newsbrand stabiliscano una relazione “win-win”, basata su regole condivise. Non possono che guadagnarne entrambi se questo avverrà.
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