Beppe Severgnini sceglie di ammorbare l’ultimo weekend di shopping natalizio con un articolo contro i commenti all’interno dei siti web dei giornali, e ci riesce.
Ci sono diversi passaggi ed aspetti di quanto scritto da Severgnini che vale la pena di approfondire.
Un primo aspetto riguarda le citazioni, i riferimenti che vengono fatte dalla firma del Corriere che non vengono mai linkate. È probabilmente il più banale ma indicatore di quale sia la mentalità, l’attitudine di fondo. Un’ attitudine che si ritrova anche nella versione cartacea dell’articolo che a lato riporta “Puoi condividere sui social network le analisi dei nostri editorialisti e commentatori: le trovi su www.corriere.it“.
Non c’è interesse al dialogo, non esiste bidirezionalità, non vi è la possibilità di approfondire. Si pontifica con un solo obiettivo quello di avere traffico sul sito del giornale, preoccupati che possa scappare assegnando alle persone, al massimo, il ruolo di amplificatori sociali del brand della testata e dei suoi giornalisti.
Dopo il paragrafo di apertura si scrive che: “I siti d’informazione non hanno né la voglia né i titoli per diventare guardiani della morale pubblica“.
Detta così è un’affermazione abbastanza grave sia perché smentisce l’ipotesi, sempre proposta quando di propria convenienza, che l’informazione [ed i giornali in particolare, mi raccomando eh!] sia elemento perniante, indissolubile, delle democrazie moderne, che perché disconosce l’influenza che i mezzi di comunicazione di massa di fatto hanno sull’opinione pubblica, sulla decodifica della realtà e sull’agenda setting, motivo per il quale proprio nel nostro Paese nessuna della testate è di proprietà di editori puri.
È, ancora, un’affermazione grave poiché è chiara manifestazione di non aver compreso come con la Rete il ruolo dei giornali, o almeno di quelli che vogliono sopravvivere, e dei giornalisti sia cambiato. Come giustamente scrive Mantellini, “Esattamente come il bravo cronista di ieri entrava dentro la manifestazione di piazza per meglio comprendere umori e punti di vista e poi raccontarceli, oggi sporcarsi le mani significa vivere la rete come ambito di interpretazione sociale. Perché le cose del mondo succedono spessissimo da quelle parti. Diversamente, se così non sarà, se questo cambio di visuale non sarà accettato, il destino della professione giornalistica è il destino già segnato di un progressivo evidente allontanamento dalla comprensione del mondo. Che è poi quello che spessissimo vediamo rappresentato nei giornali italiani“.
Ruolo dei giornalisti che una recente ricerca dimostra essere rilevante anche proprio nel mantenere un buon livello di conversazione poiché il loro coinvolgimento diretto riducendo sensibilmente commenti oltraggiosi e/o offensivi.
I troll sono un problema non c’è dubbio, ma abbiamo la sensazione che alla base della decisione di chiudere i commenti la “questione troll” spesso sia solo una scusa. Dietro a queste decisioni c’è, in un momento nel quale il formato pubblicitario emergente è [e sarà sempre di più] il native advertising ed i contenuti sponsorizzati, quello di creare spazi asettici, semplici da gestire e certo più “confortevoli” per i contenuti pagati dai brand dove le critiche – giustificate o ingiustificate che siano – sarebbero certo ancora più difficili da moderare e creerebbero ancora più imbarazzo senza l’utilizzo di professionalità adeguatamente formate [che poi qualcuno, se vuole, anche se non ci piace, può anche chiamare “guardiani dello zoo”]. Ma questo modo di ragionare dimostra ancora una volta di non voler affrontare la questione ma semplicemente di tentare di girarci attorno. E forse, di non avere proprio gli strumenti “culturali” per affrontarla.
Prosegue Severgini spiegando che la gestione dei commenti richiede un tempo e delle risorse, umane ed economiche, che non tutti i giornali possono permettersi di investire. Anche su questa affermazione è opportuno soffermarsi ed analizzarne le implicazioni.
Il grande problema per i prossimi anni per i siti online, compresi quelli dei giornali, ovviamente, sarà dimostrare che dietro ai millemila utenti unici mensili messi in bella evidenza e ai fantasmilioni di pagine viste dichiarate ci sono persone reali. Il 35% del traffico internet è – già adesso – generato da “bot” [ed è un numero destinato a salire sempre più per molte ragioni], mettiamoci anche grossi problemi con vere e proprie truffe e “giochetti vari” che gonfiano questi numeri a dismisura [famoso è il caso di una campagna di Mercedes-Benz dove si è scoperto che il 57% delle 365mila ad impression era generata da bot]. Per tutto questo agli occhi di un investitore pubblicitario sarà sarà sempre più importante capire quanto dietro a quelle cifre esposte ci sono persone vere che vanno al supermercato o entrano in una concessionaria auto.
Quindi il valore di un giornale online sarà sempre più direttamente proporzionale alla sua capacità di dimostrare di avere, oltre ai soliti “numeri”, anche quelli relativi a misurare una comunità di lettori realmente coinvolti e attenti, ovvero che abbiano voglia di condividere idee, contenuti, che desiderano dialogare con gli autori degli articoli, che partecipino agli eventi organizzati da quel giornale, che si sentano insomma, coinvolti concretamente nel progetto editoriale e lo percepiscano come un valore.
I commenti agli articoli non sono certo più, da tempo, l’unico strumento per fare tutto questo ma in qualche maniera questo lavoro andrà fatto. E ci sembra che all’azione di chiudere i commenti ben poco si faccia in altra direzione e con altri strumenti. Tanto per citare un paio di esempi: al Guardian [che tra le grandi testate internazionali realizza le revenue da digitale più alte] hanno fatto del “Comment is free” un emblema. Nella pagina di Guardian Labs [la divisione interna che vende servizi ai brand] vedrete che la prima cosa che viene messa in bella evidenza agli sponsor è l’avere una comunità globale attiva e fortemente “engaged” con le attività e i contenuti del giornale. Ma anche in Italia potremmo fare l’esempio del Fatto Quotidiano, unico tra le nuove testate nate in questi ultimi anni capace di navigare con una certa tranquillità nelle agitate acque editoriali nostrane, che ha il suo punto di forza in una comunità decisamente coinvolta, e che molto commenta i singoli articoli.
Se, come pare, Corriere.it ha intenzione di passare dall’inizio dell’anno a pagamento attraverso una qualche forma di membership le idee di Severgnini sono pericolose per la sua stessa testata. Crediamo davvero che la domanda da porsi non sia se e quali testate possano permettersi la gestione dei commenti, che peraltro può essere facilitata da appositi supporti come avviene, ad esempio, per l’Huffington Post, ma esattamente all’opposto di chiedersi quali giornali possano non permettersela.
L’articolo di Severgnini si chiude affermando che “[…] togliendo la sezione commenti, crudeltà, volgarità e insulti si trasferiscono sui social (Facebook, YouTube, Twitter etc). È vero, purtroppo. Ma almeno non è più un problema dei giornali, che di problemi ne hanno abbastanza[…]“.
Viene da sorridere [ma è riso amaro come dimostra l’immagine sopra riportata proprio della pagina Facebook del Corriere] a vedere come nella stragrande maggioranza dei casi, gli account ufficiali dei giornali vengano gestiti. Quanti esempi possiamo fare di buone pratiche dove su Facebook, Twitter e gli altri social i giornali, i giornalisti dialogano con i lettori, mettono a disposizione degli spazi per coinvolgerli o semplicemente si “sporchino le mani” a moderare?
È la miopia che si dimostra del volere dal lettore solamente un click su un titolo. Niente, assolutamente niente di più. La gestione di un brand, anche quello dei giornali, appunto definiti “newsbrand”, passa sempre più dalla relazione, dalla conversazione, come si suol dire. Spostare il problema sui social, senza gestirlo, significa accompagnarne il decadimento, la perdita di valore.
La NON trascurabile differenza tra essere online ed essere parte della Rete è questa caro Beppe, meglio prenderne atto.
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