Il Reuters Institute for the Study of Journalism ha rilasciato i risultati della terza edizione del suo studio annuale “Digital News Report”, studio sulle abitudini di consumo dell’informazione online/digitale in Europa, Italia compresa, Stati Uniti, Brasile e Giappone.
Lo studio è stato condotto tra gennaio e febbraio di quest’anno. Prende in considerazione solamente coloro che consumano informazione e che hanno accesso ad internet. Per quanto riguarda specificatamente il nostro Paese si tratta della nazione con la minor penetrazione della Rete tra le dieci prese in considerazione come mostra la sezione dedicata alla metodologia della ricerca. È esclusa quindi poco meno della metà della popolazione italiana.
All’interno del rapporto si dedicano poche righe di focus al sistema mediatico di ciascuna nazione. Per quanto riguarda l’Italia, i cui approfondimenti sono a cura di Nicola Bruno, si legge:
Silvio Berlusconi’s Mediaset empire operates Italy’s top private TV stations, and the public broadcaster, Rai, has also been subject to political influence. Television remains the main source of news for the bulk of the population. The Italian press is highly regionalised, reflecting the country’s history and character. Most newspapers are privately owned, often linked to a political party, or run by a large media group. Print newspaper readership figures are low compared to many European countries.
Il rapporto si compone di 96 pagine. Come di abitudine, se il tema vi interessa, che sia a titolo personale o professionale, consiglio caldamente la lettura integrale dello studio al di là della mia personale sintesi ed interpretazione.
Complessivamente emerge come sia prossima una seconda ondata di trasformazione con implicazioni profonde per i player dell’industria dell’informazione.
Nonostante una crescente fruizione delle news da smartphone e tablet [il 39% delle persone utilizza almeno due device ed il 12% tre o più] l’utilizzo delle app proprietarie delle diverse testate resta assolutamente marginale.
Solo l’11% di coloro che sono interessati all’informazione – e hanno accesso alla Rete – hanno pagato per news online/digital nel 2013. Teoricamente l’Italia, dopo il Brasile, è la nazione con la maggior propensione al pagamento delle notizie; vedendo le percentuali, nettamente inferiori, delle altre nazioni si capisce quanto necessaria sia un abbondante taratura tra dichiarato e realizzato. In caso di dubbi basti vedere l’andamento effettivo delle vendite di copie digitali.
L’Italia, secondo quanto dichiarato, è tra le nazioni con il maggior tasso di coloro che affermano di aver pagato per avere informazione in formato digitale [13%]. La stragrande maggioranza di questi acquista “one shot”. Ulteriore elemento di riflessione come sottolineavo esattamente un anno fa sul «Corriere della Sera».
L’Italia si conferma essere la nazione dove il canale privilegiato di acquisto dei quotidiani sono le edicole. Il 51% delle persone acquista il giornale in un edicola nel nostro Paese [negli USA è l’ 11%]
Le notizie sono sempre più unbranded e la search ed i social divengono prepotentemente la porta d’ingresso ai siti web delle testate. In Italia la search è la fonte di accesso alle notizie per il 59% dei rispondenti [ancora convinti di voler fare la “guerra santa” a Google?], i social il 34%.
Per quanto riguarda i social, si conferma come il newswire per eccellenza, Twitter, in realtà abbia un ruolo decisamente inferiore a quello che gli addetti ai lavori tendono ad attriburgli. La vera novità è WhatsApp, in particolare per l’Italia dove l’utilizzo [anche per ottenere notizie] è del 13% versus il 10% di Twitter.
Insieme al Brasile è l’Italia il Paese nel quale le persone hanno una maggiore propensione ad utilizzare i social per la fruizione d’informazione. I milioni di fan alle pagine delle diverse testate, per come vengono gestiti, non servono ad altro che ad alimentare i ricavi di Zuckerberg & Co. Basti vedere, in assenza di altri dati o di utilizzo di piattaforme specifiche di monitoraggio, il rapporto tra numero di fan, pur con tutte le tarature sulla reach effettiva, e gli accessi complessivi al sito web corrispondente della testata o, peggio, la vendita di copie cartacee, per verificare quanto labile sia la relazione.
Credo che vada completamente rivisto, ribaltato l’approccio. È meglio avere centinaia di migliaia di persone delle quali non si sa nulla, che non leggono e che commentano a caso e fuori luogo o è meglio ridurre la quantità e stabilire una relazione, creare engagement con coloro che interessano?
Personalmente non credo possano esserci dubbi sul preferire la seconda scelta. Per un’ecologia dei social media iniziate, iniziamo, ad abbattere la fan base ed a capire cosa interessa ai nostri lettori, a misurare più il click trough che altri parametri, a relazionarci con loro, come ho già avuto modo di dire.
Le notizie unbranded, senza marca distintiva, sono la derivata di una politica scellerata di gestione della marca con online che ha caratteristiche complessivamente non congrue con quelle dell’omologa versione cartacea; in particolare in Italia dove sono nette le differenze. Per un pugno di click si svende la marca. Senza brand non c’è valore aggiunto, non c’è speranza di sopravvivenza. Non è necessario rifarsi al marketing 3.0 di Kotler per saperlo, sta scritto alla prima pagina del “bigino” di questa disciplina. Fate vobis.
La scheda sull’Italia, a pagina 34 del rapporto, sintetizza le principali evidenze per quanto riguarda il nostro Paese.
Altre sintesi del rapporto vengono effettuate da Guardian [+], Poynter, Nieman Journalism Lab e BBC e molti altri ancora [ma leggetevi il rapporto per farvi la vostra idea, eh!]
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